di Giulia Bravi
Certi segni – manifestazioni altissime – si attendono e si sperano per tutta la vita. Per loro ci si affaccia alla finestra, aspettando. Si preparano gli occhi perché siano attenti e possano cogliere ogni minima variazione o frammento sperduto di luce. A volte è “il canto della sirena che si ferma per un secondo / dal mare”, altre il “passaggio di / un treno, / un suono dal cielo”.
In quello che è stato l’esordio, l’opera prima di Valentino Fossati, “Gli allarmi delle stelle” (Marietti, 2007), vengono raccolte le attese, i silenzi fermi ad aspettare una risposta; viene indagato il reale nel suo continuo rivelarsi attraverso ammonimenti esterni. Allora il rumore delle rotaie, un tuono, il cantare di un uccello in volo, un amore: tutto nella sua quotidianità si fa segno di un richiamo lontano, più alto, “un allarme che tutti noi / avrebbe fatto volare via / come un vento di gioia, / un allarme nel buio, un allarme dalle stelle”.
Scrive Gianfranco Lauretano nell’introduzione de “La gioia” (Giuliano Ladolfi Editore, 2014), seconda raccolta di versi di Fossati, che la sua poesia si configura come un racconto, una rivelazione che procede per immagini (“in quel racconto, qualcosa della vita si chiarisce, come una rivelazione, chiarendosi nel racconto stesso, nell’avanzare e precisarsi delle immagini”).
Gli allarmi di luce che dal cielo giungono fino all’uomo che è disposto ad attenderli aprendo gli occhi, il cuore, le mani, non si esauriscono nelle poesie contenute nel primo libro di Fossati. “Gli allarmi delle stelle”, infatti, è il primo, decisivo e ben riuscito passo di un viaggio che continua nelle raccolte successive e sembra non conoscere approdo. “La gioia” prosegue appunto in questa direzione, in un progressivo disvelamento del significato e del significante, fino alla scoperta in grado di perfezionare lo sguardo e di cambiare la prospettiva di luci e ombre: l’esistenza di “una strana letizia” intravista in un giorno di fine inverno, custode del “seme di un’eternità”; un’alba inattesa; una prima estate benedetta dalla “luce / dischiusa appena – / quella scala altissima”.
La verità e la visione sono fedeli compagne nei libri di Fossati – le immagini presenti nelle sue poesie hanno il nitore e l’incanto straordinario dell’aurora, del sole nel suo primo apparire e mostrarsi.
La “rinascita” del reale, la “neve che si mostrava intatta / per dare ad ogni cosa una certezza / mai data, / ad ogni viale alberato il suo mattino”, viene approfondita ulteriormente nell’ultimo e più maturo libro di Fossati: “Inverno”, edito quest’anno per CartaCanta.
La forma poetica incontrata nei libri precedenti, un lirismo narrativo che spesso confinava con la prosa, non è più rintracciabile in questa sua ultima opera. Ci troviamo di fronte a una poesia franta, spezzata; i versi sono scissi anche a livello visivo sulla pagina; la lingua, come fa ben notare nella prefazione Massimo Morasso, “è tersa, ridotta ai minimi termini, scarnificata”. Il silenzio ora assume un rilievo e una percezione mai avuti prima: per Fossati “non è possibile […] lavorare sulla parola se non si lavora sul silenzio”.
Fossati con “Inverno” continua il viaggio cominciato con “Gli allarmi delle stelle” ma lo fa attraverso spazi bianchi tra parole e versi, tramite attese e pause che la sua poesia – esatta nella sua rinnovata essenzialità – è capace di colmare. Anche la dimensione adottata è differente: ora predomina la memoria, il ricordo in grado di riportare alla vita ciò che è stato, ciò che è passato.
L’esperienza del singolo è sempre un’esperienza condivisa e universale: “silenzio di tutto / silenzio / di noi / necessario il buio, / necessità di noi … / Riprenderanno a parlare dietro i balconi / riprenderanno / a ricordare / (di noi) / […] Oscurità dello sguardo, / oscurità / di noi / bianco di noi / o / nessuno //”.
L’Inverno, insieme al mese di Novembre, è la stagione madre di tutto il libro: è l’Inverno il “tempo dei bambini / nascosti, / come palloni sui terrazzi”; sempre invernale è l’aria che si insinua negli ospedali, la “luce a gennaio”; è il mese in cui “ritornare alla pietra / (nella polvere nella pietra …)”.
La neve è un elemento cardine dell’ultimo libro di Fossati: con la neve gioca il bambino (“il bimbo / ancora / nella notte / oscura/ tra le ombre nella neve / mentre gioca / nella / neve.”); grigio-neve è il colore dell’edificio dell’ospedale (“nell’ospedale grigio-neve / neve”); purezza da salvare, quasi una preghiera nella sua limpida urgenza (“presto – presto / contemplata / sia / benedetta / a futura / memoria / la neve”).
Fino all’ultimo verso di “Inverno” continua la preghiera, la visione. Così la chiusa: “Poi sia dato l’inverno, / la terra bianca smorzerà lo sparo, / ora / di neve, / (non ritrovati / non / risuscitati) / nel fumo / come fumo / nel vento. //”. Il biancore chiaro della neve sembra coprire ogni cosa, velare come un sipario di luce gli interrogativi addolorati dell’io che si cerca, nel tentativo di recuperare e tenere insieme un’intera esistenza. È proprio la luce ad avere l’ultima parola. Anche nella stagione più fredda, l’Inverno, anche in ospedale: la luce.
We never talked about it
da “Gli allarmi delle stelle”
Anche lui aveva capito in un istante
che la questione principale era la notte.
E anche lui, se mai immaginava un altrove,
lo sentiva in una stanza bianca
con suo padre, una culla
e le sue cure.
Ma una cosa sola voleva salvare,
prima di andare, prima di sparare:
la ragazza di Digione, le altalene
mentre suonava il nastro We never talked about it
e la ruotavano nel cielo
sola, da una parte all’altra,
i soffi brevi della luce.
Da “La gioia”
Prima dell’alba la pioggia a novembre
tocca gli angoli, sporca
le luci dell’autobus
e lentamente sbiadisce il tuo colore.
“Tutto muta, si muove” –
hai detto –
anche questo,
andando via,
traversando di fretta il primo ingorgo.
Ha già aperto la porta – lui –
ad ogni ombra,
incontrato i suoi portici
raggiunto il primo treno…
Ma la tua luce nei suoi occhi
fu vita piena – la prima –
il perdono
che da sempre aspettava
e fu sereno, finalmente
in pace
sapendo il vento, ora,
che soltanto quella luce gli dava.
Novembre
da “Inverno”
[…]
sul mio male – terminale
la sua gelida pietà
la sua fredda
tenerezza
il suo amore
frustrato,
la sua sete
d’amore
una mano tra i capelli
(niente chemio,
no,
niente
più)
sì
ogni piega della bocca
beffarda, amara
lui
lui
darà la morte
sperata,
darà
la morte
voluta
l’ultima smorfia
di dolore
la dolcezza dei giorni
vedi il soffio
passare
trascolorare l’autunno
nel giorno di tutti i morti
novembre …