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La lontananza di Mario, e la sua imminenza

di Davide Rondoni

Mario Santagostini, Il libro della lettera arrivata, e mai partita, Garzanti 2022

Annovero "Il libro della lettera arrivata, e mai partita" (Garzanti) di Mario Santagostini tra i libri più belli di poesia di questi anni. Lo metto insieme a "I cigni neri" di Enrico Fraccacreta e a "Quello che vedo" di Valeria Rossella. Non sono questi, lo so, i nomi più ricorrenti né tra i più "famosi" della ridicola fama dei poeti. Ma sono tra i più impegnati nella inquietudine della poesia, nella sconnessione del risaputo, nella gloria oscura del visibile.

Dal quarto piano,
sentivo il vicino quando, alla domenica,
riverniciava la parete.
E indovinavo il colore. Non basta:
avvertivo lo sforzo
tiratissimo della pennellata per gli azzurri già intravisti
dal Reni, dal Savoldo.
Gente di cui so ancora poco
ma non tremava,
nel raffigurare un cielo.
Come se non avesse mai fatto altro,
in vita...

(E qualche volta, grato, il cielo rispondeva)

Il libro, ricco, ritmico, spaesante, di Santagostini si costituisce, a mio avviso, nelle sue molte sezioni, nei suoi ritorni, nei suoi addenda, nelle sue apparenti divagazioni tra storia, arte, biografia, intorno a due nuclei. Il primo nucleo lo nominerei: la potenza degli inizi. Ovvero quella prerogativa della grande poesia di riportarti a una posizione di non-già-saputo intorno a cosa sia la vita. E non già la insipienza intorno a una "idea" della vita, ma proprio riguardo ai corpi, ai fatti, alle successioni di eventi, alle biografie, ai luoghi. Quel "lontano" indicato come meta non ancora raggiunta dall'autore, è innanzitutto il lontano dai possessi acquisiti dalla mente circa il reale svolgersi della esistenza. È la fodera del mondo, per dirla con Miloszc. È un lontano, lo dico subito, che somiglia tremendamente e dolcemente a una infanzia, a una dantesca lallazione, a un rinascere da vecchi, per usare un’espressione rimessa in circolo dalla poesia di Lauretano in un suo bel libro, tratta dall'episodio evangelico in cui un sapiente, Nicodemo, chiede a Gesù se si può, appunto, rinascere da vecchi. Questo primo nucleo, o meglio azione, agisce lungo tutto il libro, con una serie magistrale di smottamenti, pensieri rifrangenti, versi pòliti che scardinano le dimensioni. Traversando momenti biografici, momenti dei luoghi, della memoria anche letteraria e artistica (notevolissima la sezione dedicata a Giandante X, artista misconosciuto se non tra pochi cultori, e commovente la personalissima Milano post-Sereni e post-Raboni) Santagostini ottiene questo continuo "smottamento" del punto di vista e del senso del tempo con una grazia ironica che mai cede al solo disincanto del flaneur, e mai appare come gioco gratuito, come divertimento intellettuale. No, in gioco c'è molto, la posta del libro è altissima. Di che lettera si parla nel titolo, con riferimento a Kafka - presente in una sezione "ebraica" come se l'autore dovesse toccare in vario modo diverse latitudini della esperienza dell'io, del tempo e dell'Alterità? Qui diventa "imminente" - per usare un termine degli studi danteschi di Luzi - una cosa che ribattezzerei "altrovanza".

 

Il secondo nucleo, che si intreccia e vive di continue rifrazioni, echi, con il primo, la seconda azione dunque, riguarda la costruzione di quel che chiamerei una inedita biografia dell'uomo fine-novecentesco. Infatti, in questo libro visionario, spiazzante, abitato da un tempo catafratto, la storia, intesa come precisione di vicende, non è censurata. Il cortocircuito tra storia, senso del tempo, biografia, non è questione nuova in Santagostini, ma qui, per così dire - forse per la polarità sempre più accesa di quel lontano che è fine e inizio insieme - risalta in modo speciale. Non solo dunque troviamo la biografia di un uomo che ha vissuto questo torno d'epoca tra meta '900 e anni '20 del nuovo millennio, assistendo a mutamenti profondi e impensabili della città, della storia, della politica e delle consuetudini, ma anche la vicenda personalissima di Mario, che ritorna sugli spasimi della morte del padre, scambia inanimato e vivente, sente "fantasmi" di donne amate e presenti, di amici, di dialoghi in luoghi sperduti di valli e bar, e che osserva, osserva, osserva... La spietata sincerità del protagonista e poetante (dantescamente, ancora) è la forza trainante dell'intero libro. Mai avvolta da quel che di sacerdotale a basso costo oggi in voga tra poetesse e poeti, ma, appunto, forza animata da una stupefazione infante che raramente ritroviamo nel dettato della poesia contemporanea. Può sembrare strano questo mio continuo riferirmi a un che di bambinesco per un libro tra i più maturi di uno dei più maturi poeti italiani, eppure credo che stia lì, in quel margine che viene indicato tra una lettera (che notizia porta?) arrivata e mai spedita, ovvero una vita-notizia-evento che avvicinandosi alla sua fine/inizio elimina il termine ad quem, l'avvio, si ricompone con "l'umano violentemente eterno". Sfuma l'avvio per abitarlo sempre? Al contrario di quanto voleva Nietzsche, e il suo iperuomo che doveva eliminare, censurare la nascita, l'avvio, l'invio, per potersi affermare come potente? La lettera che arriva e che non è spedita di preciso porta con sé la vera notizia, e con essa coincide: la lontananza. Quella lontananza che "presentandosi" nello sguardo e voce del poeta (forse Pascoli e Leopardi, oltre a certi tedeschi, sono cugini di Santagostini più che non si pensi) scompagina il tempo e lo spazio, e che toglie ordine e sicurezze. Il lontano che, pare dire tutto il libro in molti modi e prospettive, è la sostanza di quel che siamo, dell'unica cosa che veramente siamo. L'abisso che chiama l'abisso, ovvero gli dà nome e così esistono, come ricorda lo Pseudo-Wittgenstein in avvio del libro. E non è questo libro un continuo chiamare, camminando tranquillamente, l'abisso, essendo esso stesso divenuto una strana tranquilla condizione, e proprio al termine dell'epoca che più lo ha negato, costretto e tentato di anestetizzare? La prospettiva che unisce fine e inizio, visti dal cangiante qui, è appunto abissale. Questa lontananza è attestata, e assicurata, da loro, le parole. Ne sono le custodi. I poeti autentici, che si trovano una strana lettera di cui si ignora l'invio eppure è arrivata, ancora offrono parole abitate da quella lontananza in cui non è dato individuare punti parziali di invio. Quel "là" che abita il "qui" e verso cui tendono.

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