Home » La feroce grazia di Stefano Simoncelli

La feroce grazia di Stefano Simoncelli

di Davide Rondoni

Stefano Simoncelli, Sotto falso nome, Pequod 2022

C'è una feroce grazia, una persistente misura di grazia nelle poesie di sconforto, di abbandono che Stefano Simoncelli ci offre nel suo recente ultimo libro, "Sotto falso nome" (Pequod). Il poeta solo e invecchiante butta lì i suoi racconti in versi, narra di albe rattrappite, di muri soffocanti, di sogni ingannevoli, di nostalgie che azzannano, di apparizioni ingannevoli, di segni... Sono racconti, per fotogrammi, di un tempo svuotato - sì certo ancora certi guizzi, specie della memoria, gli omaggi (al purtroppo interista Sereni), i ricordi vividi e allucinati del padre, della madre, le terribili somiglianze in cui si inoltra... La morte dell'amata ha svuotato non solo la casa, ma anche il tempo. Eppure il poeta che dice di non credere più a niente, a nessuno, parlare deve, quasi suo malgrado, ancora dire, e scrivere "attorcigliato" su se stesso, ma deve. E lo fa con grazia, oscillando tra quella del rimbambito, dello sperduto e quella, quasi bambinesca, di chi ripete che non sa dove sta andando. Cioè lo sa benissimo, ma ecco, in realtà non lo sa. Sa che lei è là, lo attende. Di questo non dubita, con grazia e ferocia. Il canto dimesso dello svuotamento si fa, talora, tensione dell'attesa, tremore della soglia. Così questo libro che si apre nel segno della volontà di sparizione diviene paradossalmente segno della infinita presenza di lei, e attesa.

Libero da obblighi (gira, fuma, ricorda anche se non dovrebbe) immerso in luoghi colti quasi sempre senza luce - Cesena, Cesenatico che pur sono così luminosi, ma lo sguardo è annebbiato dalla perdita - libero dunque da obblighi, finanche quelli verso la poesia, Simoncelli che si sente sotto falso nome, come se appunto pure il nome noto e ammirato del poeta fosse alle spalle, offre una voce nuda, implacabile. E però con grazia. Non solo nella tessitura, nelle sospensioni, nel lessico mai sbavato, insomma nello stile, ma una grazia per così dire interiore, una spoliazione.
La realtà intera - i dettagli, le memorie, i luoghi - assume in questa dinamica, per contrasto, un rilievo assoluto. Già era questa, nella lunga storia della poesia di Simoncelli, una specifica caratteristica, ovvero la poesia come rilievo del mondo, e non suo velame o abbellimento. Ma qui, se si può dire, si arriva a un grado di nitore, di efficacia notevolissima. Che sia un "aprile senza remissione" o le "pastiglie al tamarindo" del padre, o un tram (quasi caproniano) da cui la figura amata scende, gli elementi chiamati nella poesia di Simoncelli ricevono una speciale misura di presenza.

Quale è la forza che ottiene tutto questo? La ossessione del lutto senza rimedio? Certo, anche questa forza concorre. Ma credo che innanzitutto sia la strana forza che c'è in gioco quando c'è in gioco l'amore: la diminuzione dell'io, e la percezione che il mondo, se è qualcosa, è la scena per una figura amata. In questa doppia trasformazione, la scena su cui diminuisce l'io diviene la scena per la evenienza del "tu", si realizza in modo radicale la forza d'amore. Quella che, anche "sotto falso nome", dà alle cose il vero rilievo, il rilievo "sacro". L'essere sulla soglia tra conoscenza e altro.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto