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La ferita della poesia

Campionature di fragilità di Melania Panico

 

Ci sono poeti per cui l’azzardo millimetrico della parola è una condanna da scontare contro il vuoto che si raggruma ai bordi del foglio bianco, che tenta di forzarlo, questo bianco, per accampare l’ultima, definitiva pretesa sul reale. La scrittura poetica di Melania Panico, la cui scaturigine è una «ferita gravida», squarcio uterino e materno e quindi apertura verso l’esterno, verso le ragioni della vita, dà corpo a questo doloroso attrito: «ora che il foglio diventa focolaio», si legge infatti ad apertura del suo Campionature di fragilità (La Vita Felice, 2015). Ci troviamo dunque in presenza di un poiêin che si palesa subito come fuoco nonché epicentro di un contagio che ‘infetta’ chi entra nella trama di questi versi che salda Cose accantonate e Rinascite, titoli delle due sezioni che compongono questa densa plaquette.

Il lettore è dunque avvertito, non può uscirne incolume. Tanto più che si ritrova coinvolto dentro un universo poetico in cui mancano evidenti punti di riferimento spazio-temporale e la cui unica possibilità (di fuga? di salvezza?) consiste nella contemplazione nonché nella presa di coscienza di uno smarrimento assunto come dato incontrovertibile: «La terra finisce ai piedi dell’instabilità / […] / resta in dissolvenza a contemplare la vertigine» (La terra finisce ai piedi…); «siamo rimasti in bilico / inespressi mentre le cose / si convertivano in aria stantia» (Il primo giro di ricognizione). La stessa volta celeste diviene, pirandellianamente, un fondale posticcio a cui si resta aggrappati con il rischio di causare quel tragico “strappo nel cielo di carta”: «C’è un dirupo sulla strada verso casa, / ci si tiene stretti alla cartapesta / dipinta a mo’ di cielo» (Ha raccolto gramigne dal solco).

Cosa può dunque la parola poetica in uno scenario del genere? Per Melania Panico sono due le opzioni; una che asseconda gli elementi di instabilità nel vortice e nel ritmo forsennato della danza, l’altra che implica quasi il ritirarsi degli argomenti (sintattici e semantici) davanti alla bianchezza assoluta e annichilante del foglio: «Decidi: è la danza della parola / o il tenero appartarsi / degli argomenti / davanti al bianco del foglio / a impostare il sacrificio del giorno?» (Alla luce di quanto successo).

Tuttavia non si creda che questo discorso poetico sia soltanto un interrogarsi cerebrale e meta-letterario sulle origini dello scrivere in versi. Nelle Campionature della giovane poetessa napoletana non c’è spazio per lo scacco del linguaggio; le ragioni della vita – che abbiamo inteso come apertura materna al reale – si saldano con quelle del suo farsi ri-creazione per verba; poiché tutto ciò che è va nominato, ossia fatto accadere di nuovo. «Provo a tenere strette al ventre / le pagine», si legge in Estate, prima di ritrovarsi davanti – come a fatto già compiuto – un nuovo organismo la cui materialità del corpo si innesta con il simbolico del poiéō: «Nelle vene / il repertorio / degli inchiostri» (Nelle vene). Da cui ne deriva, in ultima analisi, la sapienza primitiva e sanguigna nella scansione del verso, ovvero, come scrive Davide Rondoni nella prefazione, “la precisa, micidiale abilità e, forse, condanna di trovare immagini fuori asse, per dire della vita. […] quasi con barbara energia nel dettato”.

Tutta la poesia di Melania Panico si può allora risolvere in un solo monosillabo – concrezione linguistica della «ferita gravida» e èthos a cui si conforma il suo vivere e il suo scrivere di ‘sposa-madre’ – verso cui è orientata la declinazione per ‘campionature’ del motivo della fragilità; c’è un «peso da dare alle cose» (Si sciolgono grumi…) solo per «cavare fuori dal giorno un » (Trarre conclusioni affrettate).

 

 

Pietro Russo

 

 

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