Per Michele Miniello
Parlando di Michele Miniello si può dire che poche volte, nella poesia di questi ultimi anni, in particolar modo in Poesie – il suo ultimo libro edito l’anno passato da CartaCanta – è stata presentata una visione tanto dolorosa, impietosa, dell’uomo come fuoco fatuo, circondato a sua volta da fuochi fatui. «Vibra la lingua sferzante / mentre i suoi occhi girano distratti / con tiepida vergogna / ridotti a una macchia scura e opaca». L’occhio di chi scrive e di chi è ‘messo in scena’ guarda, osserva luoghi anonimi, soprattutto abitazioni anonime, e in essi un transito di uomini destinato a svanire e a non lasciare più traccia; tutto ridotto a una macchia scura e opaca, non solo quegli occhi che apparentemente non sanno più sorprendersi, non sanno più guardare. Destino è cancellazione, senza molti forse. Solo una timida, a tratti strenua – ma solo a tratti – lotta per esserci ancora. Come in Poesie, anche nel precedente Forestieri (Stampa, 2001), ma con uno slancio e una tenacia più forti, è la «segreta resistenza» che porta a tentare, oltre l’improbabile, di lasciare una traccia di passaggio. Si potrebbe parlare, non credo a torto, di figuranti; che in Poesie appaiono più cupi, talvolta più meschini rispetto a una vitalità leggermente più luminosa che permea i forestieri, ma non privi, ad uno sguardo attento, di quel desiderio di comprensione e di tenerezza, puntualmente atteso. Tali figuranti si presentano pure come ‘resti’ di persone, volti pietrificati o assenti; e non sono tanto emblema di qualcosa, ma recano, semplicemente, le tracce ormai incancellabili e dolorosissime dei loro bluff, della loro menzogna: «Prigioniera di se stessa, / sapeva che mentire è privilegio / di chi non sa più piangere».
Già nella sua prima raccolta, La consistenza dei contorni (Franco Cesati Editore, 1984), la parola si presenta, anzi, «è resa acuta e dolorosa come il fischio del treno». Ed è proprio in questo senso una parola che cerca il ‘contorno’, che tenta di perimetrare quegli stessi pensieri che trafiggono «come chiodi». E soprattutto le cose comuni che «si controllano / su rette parallele, fanno la spola / instancabili come le scale mobili / sotto i piedi». Lo sguardo si propone di osservare le cose, ascoltarle, di rendere gli oggetti più distaccati. Ogni cosa, in questo modo, diviene e crea lontananza. Come, semplice esempio, uno dei suoi più notevoli testi, già maturo, che cito per intero:
Un gesto adeguato, un saluto con la mano,
qualcosa detto o guardato nel suo lasciato andare,
disposto sull’ovvio non domandare …
Al di sotto di tutto questo il ritmo
della non importanza
nel tentativo di scomparire, di rendere
oggetti vicini più distanti;
e laggiù la casa, l’uscio e l’ombra
magra dei paletti,
l’ebbrezza sfuggente delle cose in corsa,
il momento allontanante che scompone
la testa in cerchi concentrici;
sotto la spinta di paesaggi nuovi si tende
il nome della stazione con treno fermo davanti
Le persone sono scorte nella loro sofferenza intima e passano, senza quasi voltarsi. Ne si intuiscono le ferite. Si intravede la «turba delle ombre trafelate», ma anche «la maschera tagliata con forbici di arguzia». La poesia di Miniello, nella prima raccolta, sembra già orientarsi proprio verso quel punto, lì, nell’osservazione e nella registrazione paziente – al di là di certe impennate ‘sapienziali’ e innalzamenti di tono, della fiducia nel ‘lirico’ con risultati, a mio avviso, più trascurabili – nella volontà di definire, ricercare la fisionomia delle cose, fissare contorni e chiaroscuri, con una tensione che è etica, prima che formale. Inoltre nell’ultima sezione si parla spesso, di colpa e di dolore. I n anticipo sulla sua maturità, In alcuni versi se ne evidenzia già la sordità, il suo essere irriducibile. «Se le angosce chiudono il cerchio / passandosi la voce / diventa strada la croce e sei finito» …«perché l’aria abbassa il tono / ai ronfi sordi delle tempie, / casse di risonanza che galleggiano / su acque inquinate dalla colpa». E viene già a formarsi, in nuce, quello sguardo indulgente – in una «composta rassegnazione» – pietoso, ma che sa anche essere al tempo stesso spietato. E a tratti di ‘amorosa freddezza’. Come in Poesie, in massima parte. È lo sguardo della distanza, di quel ricercato e colpevole distacco. Infatti «Lo sforzo disperato / di rendere minuscolo un evento / scagliava via da sé / ciò che sembrava guadagnato». Non mi sembra di andare troppo lontano parlando di una volontà di distruzione, di polverizzazione, miniaturizzazione proprio originata dalla colpa, dal sentimento terribile con cui si manifesta.
In La fedeltà dei passi (Crocetti, 1986), suo secondo libro, ad un certo punto entra in gioco la memoria, il tempo della memoria. C’è all’inizio, come sempre in Miniello, l’idea del momento separato, assolutizzato nel suo raggelamento. «Cercando la porta esitavi fuori dalla stanza / gremita di gente / meno sicuro sull’oggetto della scelta / gli occhi fissi sulla scritta / ormai cercando macchinalmente» … Ma la volontà, già tematica in La consistenza dei contorni, di cogliere l’essenza di uno stato interiore che si riflette all’esterno e di perimetrare oggetti, persone, situazioni, si trasferisce qui sul ricordo, scrutato e fissato come se fosse una natura morta. Ma «come dimenticare quei sogni sui trampoli / quel cielo accecato dalle stelle» dove interviene, si annida, o meglio si anticipa – se si hanno in mente gli esiti futuri – il germinare del dolore sordo e senza scampo, semplicemente uguale a se stesso. Lo scandaglio della memoria arriva ad illimpidire ulteriormente la forma, a far sì che l’approdo alla definizione, continua, senza sosta, si faccia più puro. Quando «a giugno / dietro le rondini banditrici di festa / il cielo si abbassava manna celeste / e poi le capanne degli indiani / la caccia alle volpi le nespole / le ore passate ad aspettare / i maialini ciechi schizzati dalla scrofa sul fieno» , la nostalgia è sicuramente presente, ma come in molti esiti di questo libro e nella peculiarità della ricerca poetica di questo autore, è quasi pietrificata.
Forestieri, più recente, nasce come da una costola sereniana, il disincanto è più esplicitamente tematizzato e rivela una profonda capacità di auscultazione di diversi strati della realtà. C’è la scelta di un panorama prima di tutto interiore, oltre che composto prevalentemente da interni. In molti poeti lombardi, per esempio, c’era l’esterno, c’era la città, Milano era spesso la protagonista vera. Qui il panorama è tutto ‘dal di dentro’ e gli oggetti sono colti nei loro sussulti sottili e impercettibili. Come in un quadro di Morandi. In Forestieri ci sono le cose e la loro vita interna, mentre in Poesie le cose stesse divengono più opache e anonime, come i luoghi, gli appartamenti, i pochi esterni. Il penultimo libro è composto anche di piccole epifanie. In Forestieri c’è ancora una minima fede nell’epifania delle cose che si danno nella loro grazia minima e residuale quando «poi la grazia delle cose intorno / spegne i sussulti della mente». Ma anche nella loro inutilità. Proprio quell’inutilità in virtù della quale la grazia si può manifestare.
Più che in Poesie, in Forestieri il disincanto più duro – uno dei temi centrali della poesia di Miniello – pare coincidere proprio con il desiderio più bambino, il desiderio più assoluto di tenerezza e gioia. Tanto assoluto, appunto, quanto sempre deluso e offeso. Dove «l’offesa registrata dal suo cuore / stacca uno sguardo duro e doloroso», o dove
Un sorriso contratto a stento conteneva
l’infelicità che dentro le cresceva,
era dunque quello l’uomo
con voce dolce suadente di cui fidarsi
mentre ostentava gli occhi stanchi
come un sego di una grande pacatezza?
Aveva passato la sua vita ad aspettarlo
seduta su una pietra
In Forestieri, inoltre, è ancora ravvisabile la dicotomia disincanto-desiderio, apparenza-realtà dove, in un centro ipotetico, si pone proprio la grazia del riconoscere le cose e il loro linguaggio, pure nella loro nudità. Rinascere appunto ‘per grazia’, quando il destino «non ubbidisce a niente».
Nell’ultima opera di Michele Miniello, Poesie, in primo piano invece c’è un uomo che «tormentato dall’ansia / è arrivato al limite di se stesso». Compare, diviene centrale e tematico il dolore, tanto sordo quanto tautologico, come già si accennava, nel suo puro darsi. Il dolore non è altro, non indica altro, non allude ad altro che a se stesso. La tristezza è la tristezza, il dolore è dolore, un sogno sconnesso è soltanto un sogno sconnesso. È quello che è, e basta. «Tremendo il risveglio del dolore / gesticolava sempre più scompostamente, / si flagellava con rimproveri strani. / La vertigine dell’ansia rendeva / i suoi pensieri distanti, solitari». In Poesie, Miniello guarda in faccia definitivamente quel grumo di dolore sordo, senza andare oltre. Oltre e al di là della parola, al di là del verso. Sembra non essere possibile, al di qua del recinto delle parole e dei versi, qualcosa di diverso da quel dolore potente e cieco. L’unico legame con una dimensione apparentemente diversa dal puro darsi del dolore, è ciò che al passato potrebbe legare. Ma ciò è fondamentalmente solo colpa e rimorso, che tanto sono profondi tanto si giunge a perderne l’identificazione delle loro cause. Che quasi si smarriscono, quasi non fossero ‘necessarie’, anche quando, per puro caso, «nasceva / l’amore per il mondo » destinato subito a perdersi in quel leopardiano ‘punto acerbo’e a dissolversi presto. C’è anche Maurizio Cucchi in questo, un autore a cui Miniello ha sempre dimostrato vicinanza e fedeltà. Ma del Disperso e delle Meraviglie dell’acqua non sembra rimasta che la cenere. Per esempio, anche il movimento affannoso e franto del Disperso, aspro e atonale, è più vitale e orientato. In Forestieri era meno residuale, comunque, la «disperata resistenza delle cose» Qui, in Poesie, la resistenza è presente, sì, ma come può essere ‘presente’ in qualsiasi forma di vita sulla soglia di un dissolvimento certo, precoce e imminente. Il senso di colpa, in questi due autori, è pur sconfinato. In Cucchi però la colpa, anche se incancellabile e arcana, può trovare un riscatto possibile. C’è una pista da battere, una quête, un riconoscimento cercato e finale. Rispetto a Cucchi in Miniello non ci sono piani più ‘alti’, non ci sono disegni così visibili, viaggi, spiegazioni, agnizioni, visioni pur raggelate. È come apparentemente smarrita l’idea di un filo rosso che conduce, come dire una minore astuzia intellettuale.
In Miniello, abbiamo visto, la possibilità di andare ‘oltre’, è come sottoposta sistematicamente ad una spietata censura, quando non è sistematica negazione. Il sogno stesso sembra essere connesso, come si diceva, soltanto, e lo sottolineo, alla voce di una colpa innata, ma non nel suo svelare – come nel sogno iniziale di Otto e mezzo – suggerire una possibilità di slancio oltre l’angustia. È quella, sì, una delle possibilità di un sogno che si elabora, ma qui viene appunto censurata. E i sogni stessi sono tanto più precisi, sul punto di dire, quanto più evanescenti ed effimeri.
Se guardiamo ciò che è rappresentato in Poesie ci accorgiamo di quanto siano principalmente immagini-simulacro; una vera e propria ‘messa in scena’ di ciò che è già successo, di anime e di corpi lividi che non aspettano e non vogliono più niente. Tutto, quindi, può essere ‘rimandato’, sì, ma solo fuori dalle parole e dalla pagina. Lo spazio, come si è visto, è interno e esterno, pallidamente esterno – visto o intravisto spesso soltanto dal di dentro – è uno spazio dove tutto è già irrimediabilmente accaduto – e viene taciuto – come in un dramma di Harold Pinter, dove quel qualcosa di irrecuperabile, che fu decisivo, rende vano qualsiasi conforto. Solo ‘feste’, i canti ubriachi dei presenti, e poi qualcosa che ha a che fare con un gesto di abbandono totale e di tenerezza inesprimibile … Un gesto attraverso cui un uomo o una donna potrebbero essere sul punto di abbandonarsi nuovamente, e di donarsi del tutto appena prima di ritirarsi, prima di cominciare di nuovo ad appassire. Siamo quindi in una zona che ha a che fare con il non detto. Il continuo uso dei verbi all’imperfetto indicano azioni stanche e ripetute, continue. Danno continuità nel tempo, ma rispetto a cosa? Solo il dolore, a questo punto, a questo livello, garantisce un barlume di continuità. Per dire qualcosa di non espresso e non esprimibile Miniello usa spesso – non sempre – una sorta di ‘grado zero’ nel dettato. Come una vera e propria ‘amputazione’ di frammenti di parlato dai quali è cancellato appunto presente e futuro. Dove nel tempo, dal passato appunto, si consuma e ha vera consistenza solo quel grumo di dolore. Questo sì, indicibile.
I versi di Poesie, poi, di questo libretto scarno ma assai denso, polverizzano e calcificano i tentativi di slancio lirico di Falso giuramento (Esuvia, 1993), una sua stagione diciamo ‘innamorata’, un po’ anacronisticamente, con risultati a mio parere meno incisivi e che nulla dicono di più, e con pertinenza, rispetto alla direzione di lavoro di quest’autore; a e cui guardare, semmai, con una sorta di indulgenza.
Se in Forestieri, poi, le voci, quelle voci, cercano ancora un posto nel mondo, in Poesie sembrano averlo smarrito, esse stesse confuse e smarrite. Nel penultimo libro infatti si legge: «con l’ossequiosità del forestiero / che è grato di non essere scacciato / e avere un posto nell’angolo a sedere.»
Un rigurgito solo, poi, un rigurgito di gioia scolorita. Di un pallido amore per il mondo che non consola, né mai consolerà tutto questo, aprendo solo a qualcosa di infinitamente piccolo rispetto a quel dolore rappresentato in Poesie, anche quando la felicità sembra del tutto fuori dall’orizzonte:
Dalla felicità ormai sono immune,
la gioia è una sbornia passata,
all’improvviso sono sazio
del peso del mondo e ripongo
in un cassetto dorato i ritratti,
non ho più voglia di dare consigli
e non mi importa la lotta della vita,
perché il destino si è fatto più scaltro.
Come qui, ma anche, nel bel finale del libro:
…
Quella notte un colpo di vento
crudele e improvviso
ti ha portata in un mondo lontani,
ma ti cercherò ovunque tu sia
e ti rimetterò l’anello al dito.
Anche se per pochi tratti, Miniello è anche questo.
Valentino Fossati