Davide Rondoni
Naike A La Biunda, Accogliere i tempi ascoltando, Lietocolle-PordenoneLegge 2017
Naike Agata La Biunda ci dà un libro inquieto, frammentato, e pur teso su alcune corde di confessione e di consapevolezza (“Dopo si diventa carne/ alfabetica e indolore” dice un verso tremendo e esatto). A questa poetessa non frega niente dello stile, per fortuna. È così, il suo stile nasce dalla stessa radice del pianto e del sorriso, pur se raro, che abitano il libro. Nasce dal magone medesimo dove si agitano i fantasmi e le piccole grandiose meraviglie del difficile rapporto con la madre e con il padre, rapporti pieni di dolore aspro e però riscattati in una tenerezza che lotta con “la malignità/ del lamento”. Nasce insomma trascinando con sé reperti sereniani o di altri poeti “mainstream” insieme a retaggi dialettali o pezzi in lingua catanese direttamente o scarti bruschi da acmeista russa. Nasce dove è rinata una possibilità di dire, dove - come fissa una potente prosetta - nasce il “miracolo”.
- Posso vedere ?
- Guarda che non si può vedere l’assenza?
- Qualcosa devi pur avere...
- Quello che ho è un vuoto, una mancanza, uno strappo originale di carne, simile a quello che mi ha generata. Dicono che quando si diventa pronte ad accettare il destino di madre – quando si accetta la nascita – questo nulla comincia a lacrimare sangue, come un miracolo.”
Questo libro feroce e tenero mette in questione una delle grandi questione dell’epoca, e lo fa come solo può fare la poesia, patendola.
“Le bambine dagli occhi fermi
avanzano fra i giocattoli
col passo delle prede cacciatrici
si innamorano lentamente
delle cicatrici, vedono maniglie d’oro
dove un tempo non c’erano
neppure serrature”
Il libro mette in scena, dalle sponde di una salvata (non di una scampata), il senso della nascita e del destino oscurati da una negazione che è contro la natura umana, e che sta disseminando di sé in molte forme e cangianti tutta la città degli uomini, una negazione spesso nota in laboratori di letterati e dipartimenti contro il bene della nascita, contro il senso misterioso del destino, una negazione che ci fa diventare “solo iene che ridono” sterminio dell’anima e del corpo nascenti, e rinascenti e desiderio di un destino di resurrezione. Sterminio, intendo, che sta riducendo ogni cosa a lamento sul vivente, e anche troppa poesia dei coetanei di Naike Agata La Biunda a noiosissima compilazione di bei versi. Contro tale sterminio di noia della vita, già antiveduto da Baudelaire, senza bandiere o stemmi se non quello del suo dolore e del suo amore si alza la voce della giovane donna siciliana e milanese. Lo sterminio ha passato l’ala sulla sua esistenza e sulla voce di questa poesia che a volte brancola cieca, inciampa, e però mai lei gli lascia l’ultima parola, la vittoria. Il vuoto come assenza-presenza del senso del destino è mai quieto e anzi seppure appare come opacizzato in queste pagine di donna non più ragazza, vibra ovunque in varia intensità - a volte minima, un fremito - la necessità che il desiderio non si appaghi del poco. Libro che sbanda per fortuna tra le vicende quotidiane e le grandi visioni. A volte il procedere è faticoso, forse per lavoro più mentale e pigro che poetico, forse per acerbità ancora. Ci sono versi bellissimi in mezzo a poesie da buttare, ci sono inizi così così e finali da incorniciare. Ma è un primo libro, molto lavorato a livello primario, pieno di ombre inquiete in cui è scolpito con una temeraria salutare determinazione. Quella che occorre all’anima dei poeti (cosa da non confondersi con il carattere).