Intervista a Valentino Fossati

di Paolo Pera

Parliamo della tua ultima opera, Il sogno (CartaCanta, 2022). Dalle sue pagine, lo confesso, mi sono giunti anzitutto due elementi: l’onirico (che vorrei identificare come nebbia) e la luce, ma sarebbe forse il caso di scrivere questa parola con la elle maiuscola, giacché annunci un “sospetto di Dio”. Inizio dunque col chiederti se questa luce possa essere Dio, in qualche modo. Non sono quasi mai stato abbagliato, nel senso di un “chiarore mentale” sopraggiunto, durante la lettura di un testo poetico, ma così fu con la lettura di Inverno (la tua terza opera): quando componi anche in te vive una simile sensazione, una simile luce?
«Luce, nebbia, neve, sono elementi fisici, metereologici, prima che metafora (la neve per me, più della “luce”, alludere all’invisibile e al divino); elementi che attraversano la vita di ognuno. Anche e soprattutto, nella massima pienezza, quell’infanzia dove quasi sempre dimora un segreto, il nostro più intimo segreto. Noi li vediamo con quegli occhi, gli occhi dell’origine. Li proiettiamo nel presente e nel presagio del nostro futuro (quel presagio, però, che già abitava la nostra prima vita, con la più forte intensità). Credo in Dio, ma ho ben presente la dimensione del “sospetto”, un sospetto che però non riduce, anzi rivela, diventa massima evidenza...»

 

Ne Il sogno, però, non vedo la luce presente in Inverno, ma semmai le gesta di un uomo che a tratti vede la Luce. Credo non sia scorretto ipotizzare che questo libro sia un’autobiografia o, per meglio dire, un’autobiografia “a frammenti”, e che questi frammenti (queste sequenze) siano “sogni”. Che dici, può andare?
«Come ti ho detto la luce c’è, ma è prevalentemente luce atmosferica. Se vogliamo luce del ricordo, dell’infanzia o della giovinezza. Con un effetto prevalentemente cinematografico. La luce abbagliante, ma anche la neve. Anche dalla nebbia affiora qualcosa di importante. Come la donna attesa ogni giorno, la sola (forse) certezza in un presente oscuro, dal quale proteggersi. Il Natale diventa buio, la famiglia scompare. La neve non c’è più. Tutto è stato come un sogno che si è dileguato. Nient’altro che questo».

 

Nel libro mi hanno particolarmente interessato alcuni passaggi più – passami il termine – “volgari”, di certo relativi a periodi d’erranza nelle nebbie. Lì troviamo parolacce e scene abbastanza spinte che stridono se paragonate ai momenti d’idillio famigliare (confinati nel passato), e pure pensando all’incantato “sospetto di Dio”. Insomma, una dolcezza e una ruvidezza.
«Nei miei libri, a partire da Gli allarmi delle stelle, ci sono passaggi definibili “spinti”, a tratti osceni. Tutto ciò ha a che fare con l’esplorazione della profondità – ma non necessariamente dell’oscurità, intesa come qualcosa che non può essere messo in luce, anzi. È ciò che emerge – che torna alla luce, appunto – dal nostro abisso, dal contatto più o meno consapevole col nostro abisso. Spesso dalla disperazione, ma anche da una implacabile e altrettanto profonda sete di gioia. Ne Il sogno ci sono alcune bestemmie, servono a evocare persone e situazioni, non sono, più di tanto, invocazioni “rovesciate”».

 

La bellezza dell’amore famigliare: in conclusione c’è un accenno di redenzione avvenuta. Il narratore (guardando un sé che fu perduto ne Il sogno) proclama un avvenuto distacco, e noi tutti ci domandiamo: quanto è mera invenzione?
«Alcune cose sono ispirate da quella che un po’ è stata la mia famiglia “adottiva”. Un po’ da racconti che mi sono stati fatti, un po’ da invenzioni e visioni mie. Le parti che raccontano del “lui” sono spesso autobiografiche, ma, anche qui, con molte cose immaginate. Paradossalmente la sequenza più onirica di tutte è quella che racconta un’orgia tra tre carabinieri corrotti e una giovane prostituta. Assolutamente onirica appunto, vagheggiata…»

 

Cambiamo argomento. Sei legato da una storia in parte condivisa, e da un’amicizia decennale, con Davide Rondoni. Il titolo della tua opera prima Gli allarmi delle stelle (Marietti, 2007; ora CartaCanta, 2018) appare anche quale verso entro il suo Bar del tempo (Guanda, 1999), potremmo definirvi come “fratelli in poesia” (espressione che amo usare)? Hai qualche aneddoto da raccontarci?
«L’incontro con Davide mi ha cambiato la vita. Al collegio universitario dove risiedevo. Prima scrivevo, sentivo che volevo e dovevo farlo, ma vivevo in uno stato di perenne frustrazione. Con lui e con molte tra le persone che gravitavano intorno al Centro di poesia contemporanea di Bologna ho capito che portata conoscitiva poteva avere la poesia e che oltranza poteva raggiungere, rispetto alla percezione del male ma anche del divino, della grazia, insiti nella stessa realtà. Poi ci sono alcune sue poesie, come Bartolomeo, dedicata al suo figlio primogenito. Il finale: “dal buio mi piacerà rivederti”. Ma in particolare Adieu II, sempre il finale, dopo una vicenda di abbandono: “E il dolore inchiodamelo dentro // come un bene”. Ecco, senza questi versi, credo, la mia vita sarebbe stata diversa».

 

Al Centro di Poesia Contemporanea avrai di certo conosciuto degli importanti protagonisti della Poesia del secondo Novecento italiano, chi ti lasciò l’impronta maggiore? A chi ritieni di somigliare maggiormente tra gli estinti? Tra questi chi ti fu maestro, se ci fu? Tra i viventi, invece, ti lancio tre nomi: Conte, Cucchi, De Angelis. Quale sceglieresti e perché? Ricordiamo poi che Maurizio Cucchi è l’autore della prefazione de Il sogno.
«Premetto che la lettura per me più decisiva, a parte Montale, è stata quella di un teologo, Sergio Quinzio. Il grido verso un Dio che può anche abbandonare (sì, può, se può tutto può anche questo) la terribile delusione di ogni speranza, ma anche l’anelito alla straziante bellezza della vita (ma forse, rispetto a quest’ultimo punto, è stata più importante la conoscenza, abbastanza approfondita, di Giovanni Testori).
Quello che mi separò un po’ dalla visione di Davide e di molti compagni di viaggio di allora fu la mia distanza dalla poesia di Luzi. Ho amato la sua opera saggistica, l’ho sempre trovata estremamente illuminante, ma la sua poesia non sono mai riuscito ad approcciarla come si deve, nemmeno ad amarla. Amavo visceralmente, appunto, Montale che ha in parte acceso in me il desiderio di scrivere; tra i maestri del Secondo Novecento Bertolucci e soprattutto Sereni, il Diario d’Algeria e Stella Variabile, il più metafisico, il più “fraterno”.
In Cucchi ho subito colto la ferita di un’orfanità precoce e tragica che in qualche modo, ho trovato fraterna alla mia esperienza, dove però il padre è stato totalmente assente, associato al rifiuto, un rifiuto originario. La poesia di Conte, invece (la cito anche ne Il sogno), mi ha aiutato a comporre una mia visione che racchiudesse anche il superamento dell’abbandono, la guarigione dalle ferite. Sereni… l’ho sempre sentito più vicino e per me indispensabile... Tutto qui».

 

Spostiamoci sulla scrittura. Alfredo Rienzi, poeta di Torino e critico letterario per passione, parla del tuo linguaggio come di una “parola polverizzata”, e in effetti la sua dimensione atomica, nelle tue letture pubbliche, è evidente: nel Sogno v’è quasi un’elencazione che, pennellata su pennellata, costruisce il “dipinto”. Io però userei un altro aggettivo ancora, direi che la tua Parola è “nevicante”. Mi dicesti infatti che tra i tuoi intenti, per Inverno, c’era quello di “far nevicare le parole”, di sparpagliarle sulla pagina. Ebbene: quando leggi, le parole nevicano da te; così, quando elenchi oggetti, emozioni e dialoghi – in prosa, com’è Il sogno – tutto è già nevicato, pare neve compattata al suolo. Che rapporto hai con la tua parola e con le letture pubbliche? Lettura che mi hanno sempre impressionato per il loro “composto dolore”.
«Che dire. D’accordo sui quello che ha detto Alfredo (anche se la “polverizzazione” non è da intendersi in negativo) e su quello che osservi tu. Scrivendo ho cercato anche questo, anche in Inverno, una dimensione pittorica della parola, architettonica e musicale. Ma al di là di tutto ciò, la lettura pubblica è ancora altro. È una cosa che di solito curo molto anche se talvolta l’emozione e il timore mi giocano brutti scherzi (che alla fine fanno anche parte della performance)… Non sempre da altri poeti viene fatto e, talvolta, anche poesie notevoli nella lettura a voce alta perdono molto del loro valore. Si tratta di un “evento” diverso. Desidero fare accadere qualcosa, sempre. Al di là di quello che è stata la scrittura o di quello che può essere la lettura privata. Sì, cerco la compostezza e il dolore che, proprio in questa, sento possa esprimersi al massimo grado».

 

Fai una sintesi del tuo percorso poetico, dalla prima pubblicazione a quest’ultima. Che poeta riconosci di essere? Che cosa credi che sarà in futuro la tua poesia?
«Scrivo perché vorrei dimostrare a me stesso e a chi mi legge che la mia parabola esistenziale non è stata vana. La giustificazione, la non insensatezza di un cammino».

 

So di nuovi progetti in cantiere, ce ne vuoi parlare?
«Sì, sono diversi. Ho preparato abbastanza accuratamente un reading tratto proprio da Il sogno con l’aiuto musicale di un pianista e di un vocalist. Sto lavorando, con altri, al progetto di un’ampia antologia poetica. Ho incominciato la revisione del mio prossimo libro, che in realtà è lì da anni. L’ho scritto tra il 2015 e il 2017. Vorrei fare una revisione soprattutto dal punto di vista grafico, accentuando l’intensità del verso ricomponendolo e riducendo la dislocazione e l’uso degli spazi bianchi, ipertrofici: gli elementi che caratterizzavano Inverno, un libro che, secondo me a torto, è stato scambiato per epigonismo mallarmeano, addirittura per “retroguardia” e altro ancora (anche se ha pure avuto accoglienze entusiastiche). Tutto legittimo quando si tratta di letture personali, ma credo riduttivo rispetto ad un tutto che nasceva da un respiro, da una cellula ritmica, musicale, interiore che voleva come registrare un sisma, come propagarsi potenzialmente all’infinito».

 

Tra i colleghi, verseggiatori e intellettuali, chi su tutti ha la tua stima? Su chi scommetteresti? Chi dovrebbe essere conosciuto?
«Guarda, ce ne sono diversi. Mi limito a due: recentemente ho scritto uno studio sui due libri editi del poeta Andrea Margiotta. L’ho studiato proprio perché valeva la pena di farlo e di proporre la sua conoscenza e la sua lettura. Poi c’è un poeta che vive a Milano, Riccardo Infante, la cui opera, tranne una breve silloge, è prevalentemente inedita. Ho avuto modo di avvicinarla nella mia attività di valutatore. Di rara forza e ricchezza. Ecco, su di lui scommetterei. Trovo notevole la poesia di Aldo Nove, quasi o forse ancora più della sua prosa (che comunque di poesia si nutre incessantemente), su cui ho scritto e scriverò. Ma di certo, ovviamente, lui non ha bisogno di nessuna “scommessa”».

 

In conclusione, v’è una massima che guida il tuo agire? Se sì, vuoi condividerla con noi?
«Tocca il fondo, conosci l’abisso, ritorna».

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