“In bilico” di Sauro Albisani

di Rosalba de Filippis

Sauro Albisani, In bilico, prefazione di Davide Rondoni, Passigli Editori, Settembre 2023 (pagine 153)

È fresco di stampa, il nuovo libro di poesia di Sauro Albisani, “tra i nostri migliori e più autentici poeti, ancora nitido… erede scanzonato, perché libero, del miglior Novecento”, scrive Davide Rondoni nella sua prefazione.

È come se ci si annebbiasse la vista, via via che leggiamo; forse perché commossi? Perché siano gli altri sensi a trarne maggiore nitidezza? E accordiamo, così, anche il nostro respiro, al respiro dei versi di questa aspra, limpida e sincera raccolta.

“In bilico”, recita il dizionario etimologico: “essere in bilico dicesi metaf. per Dipendere da un leggier moto, da un piccol fatto che la cosa di cui si tratta rovini, precipiti, cada, danneggi”; e aggiunge il Treccani “anche essere in bilico tra la vita e la morte”.

Tanti sono i modi di mantenersi in bilico: c’è chi si sporge sull’abisso, come avviene nei fulminanti aforismi dell’ultimo Caproni, per poi sottrarsi al potere erosivo della parola, in un silenzio denso e solitario. Albisani si ispira al maestro di Res Amissa, citandolo in modo esplicito, sostituendo però, alla res la spes:

SPES AMISSA

a Giorgio Caproni,
in memoria

Ti credevo sparita,
non sentendo risposta.

Eri solo smarrita
nella mia povertà, nascosta
dentro la carità.

In questa poesia, collocata, certo non a caso, nella penultima pagina del libro è possibile cogliere un sentire betocchiano. Un poeta, Carlo Betocchi, amico e maestro di Sauro Albisani, che, della carità verso il mondo ha fatto il vangelo del suo quotidiano. Anche quando più avanti negli anni, venne meno la fede. E, in parte, anche la stessa speranza.

Nei suoi versi Albisani è in continua ricerca (Chi è che cerco? Chi devo trovare?); sembra cercare un sé stesso bambino in cui rispecchiarsi, di volta in volta, come spaesato, naufrago, turista, reduce, profugo, emigrante: prosopopeee di un io smarrito e dimentico, nel suo approssimarsi alla fine. Con sincerità spietata.

Al centro c’è la vita, quella vissuta, oppure sognata, di ricordi che tornano a far male: la famiglia, la scuola, gli amici. E la morte, confessata con pudore, per esempio, nell’umile fine di una gattina, presenza creaturale dell’infanzia:

CONFESSIONE
Avevo una gattina che nel parto
ci lasciò a primavera, un’alba, quando
la trovammo distesa sopra l’erba
del nostro prato. Pensai che dormisse.
E piangevo, scavando, ma nascosi
quelle lacrime, me ne vergognavo.

Straniero oggi osservo quel ragazzo
ricoprire la buca con un piede,
io.

Un io tutto solo, questo, graficamente isolato nell’ultimo verso, privo persino della consolazione di una modesta assonanza. Un io che resta lì, quasi un intruso, due semplici lettere pronte, a momenti, a distaccarsi dal testo, come il vagone di un treno, in bilico sul precipizio.

C’è chi invece sta in bilico, sulle sue gambe malferme, come la figura del babbo, malato e malfermo che si affacciava dall’alto del suo collo /e sotto di lui /a una profondità vertiginosa /oscillavano maledettamente / le pareti delle sue gambe…, mentre la lingua gli si imbroglia, la sua nuova lingua /amputata di molte consonanti, compresa soltanto dal figlio che lo sostiene e si confessa ubriaco, come smarrimento empatico di fronte allo spettacolo del dolore, insieme indecifrabile e inesorabile.

Nelle quattro sezioni del libro (Storie, Raccolta indifferenziata, Appello, Apophoreta), riaffiorano i primi lutti, i primi amori, gli infantili spaventi, gli allievi, con i loro errori pieni di involontaria poesia:

L’ERRORE
Nel tuo riassunto hai scritto che la via
sbocciava in una piazza: ora dovrei
sottolineare col rosso, Francesco,
abbassare il voto, ma domani,
domani è aprile, e io non ci riesco.

Tutto un interrogarsi circa il proprio passato e il presente come dentro visioni, nel perimetro di quell’incerto confine in cui si aggira un uomo che si sente invecchiare, pieno di amara saggezza, il quale, con un delicato sberleffo infantile e un’ironia pungente e leggera, non manca mai di ricordarci l’irriducibile ambiguità della vita. Come se la partita, in fondo, si giocasse altrove.

Perché, forse, in nome di un “noi” (…io: // prima persona /del plurale, noi); in nome di un’occasione perduta, si resuscita viva la parola poetica /…vivendola insieme / agli altri, farla insieme, per salvare / le parole dalla morte dal nulla.  Perché, insomma, le parole siano il medesimo pane, insieme programma e rimpianto. Una mano tesa, forse, a quell’ ’io solitario, sconsolato di fronte alla morte della sua gattina.

È forse questa la strada? Sembra dirci Albisani, con le sue alluvionate parole, come tante molliche di pane che cercano l’altro; mentre in sogno l’angelo custode… Allenta le dita quel poco / da farne uscire un ronzio / io io io. E lo stile è teso, incalzante, originale.

Qualcosa colpisce, in particolare di questo libro, come tratto distintivo, come dono da portare via: una certa grazia (si veda la poesia Bilingue e il limpido parlottìo degli uccelli tra i cipressi di un cimitero). Un candore quasi ostinato, una pìetas verso il mondo, “una traccia di piume” che si fa apparizione e solo parzialmente si disvela, come nel testo conclusivo della raccolta:

ALI
Di quelle rare volte
che un pensiero è arrivato
intrufolandosi
nella mia stanza gelida,
lasciando sopra il vetro
della finestra chiusa
una traccia di piume.

Non ero solo, chino,
sul mio quaderno, al lume
della lampada, mentre
di là tutti sognavano.
Non sono solo.
Qualcosa si è staccato
da un mondo prossimo, invisibile,
e ha preso il volo.

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