Su La poesia, ancora? di Gian Mario Villalta, Mimesis 2021
di Davide Rondoni
Con andamento da passista, non senza qualche strappo di cui però quasi si scusa, il poeta Villalta attraversa un sacco di questioni tra quelle che si affacciano ogni volta in cui, nei nostri tempi, appare la parola "poesia". E un passista in effetti occorre, vista la mole di problemi, e occorre un discioglitore di nodi che d'altro lato diviene un creatore di arazzi. Del resto, il titolo è anch'esso bifronte: la poesia ancora? – vale a dire qualcosa che ha una sua propria natura e sta attraversando anche questi tempi – ma si tratta anche di una specie di invocazione e rilancio. Che io leggo, e non credo di sbagliarmi, pure come faccenda personalissima del Villalta. Perché se può essere ovvio che tutti i poeti buttino giù qualche pagina sulla natura del fenomeno che li ha coinvolti, il lavoro che si è sobbarcato Villalta – che di mestiere fa l'insegnante alle superiori e il direttore di un festival – è stato oltremodo impegnativo ed esito di una nutrita biblioteca passata in rassegna (da Dante a Chomsky, da Manzoni ad Agamben, da Celan a filosofi e neuroscienziati contemporanei). E risponde pur con le armi della saggistica tradizionale con tanto di note, capitoli e con stile piano che mai cede, a una personalissima vicenda: "La poesia, ancora" mi suona come la frase di un uomo che ha dato la vita a una amante esigentissima, e che potrebbe ora per conta d'anni ed esperienza viversela, come dire, più tranquilla, con meno "sbatti". E invece no: la poesia ancora, diviene – sempre lei – il prossimo amore, il prossimo pensiero fisso, il prossimo drago da guardare negli occhi, l'enigma da abitare, il profumo da riconoscere della misteriosa "pantera". E lui si ributta per afferrarne ancora il perché, o meglio, il "motivo" che ha reso e rende tale avventura sensata e non una piccola decorazione estranea al vivo delle vicende umane o solo artificio per qualche modesta soddisfazione personale. Insomma, in queste pagine ci si muove con accortezza ad studium per afferrare il motivo per cui occuparsi di poesia non è una minchiata da anime sensibili, ma una discesa nel proprium dell'umano, e dunque delle contese che esso attraversa in ogni epoca. E sia detto da compare lontano per molte cose dal friulano Villalta: bello sentire un amico ancora buttarsi in questa pugna, in questo ardore. Con questo "ancora" che risuona da un lato ironico e dall'altro come supplica di condannato e amante.
Il libro è leggibilissimo, forte, non ha per nulla l'aria del volume uno che vi offre gli appunti di una vita (anche se non mancano, ovviamente, testi o parti di testi ripresi da altre occasioni). Il disegno solido, tessuto di ricorrenze, il lettore attento non si perde.
Ho imparato molte cose leggendolo. Del resto, i libri degli amici poeti mica servono a dirsi a vicenda "bravo" e finita lì. La riflessione, sia detto in breve, corre a mio avviso su due filoni (o filari, verrebbe da dire, vista la provenienza del poeta): l'indagine sulla natura del linguaggio poetico e dunque del linguaggio umano, da un lato, e dall'altro la stretta relazione della esperienza poetica con i sensi, i cinque, e le loro vie.
Villalta cerca, nel dialogo tanto con la filosofia quanto con le acquisizioni delle neuroscienze, una via per cui la poesia sia esaminata come fenomeno portante, assiale, per la comprensione stessa del fenomeno umano. E se da un lato si lascia agevolmente alle spalle i totalitarismi strutturalisti (forte anche della sua esperienza di insegnante) dall'altro non accede a troppo facili neo-orfismi o, come io le chiamo, a misticanze para-mistiche di moda. Sa che il fenomeno umano affonda le sue inafferrabili radici e le sue questioni nella emersione del suo essere come "animale parlante" – fenomeno unico nell'universo, per quel che ci è dato sapere. E così mentre molti intellettuali e poetanti veleggiano allegramente in un chiacchiericcio (a volte presentato come poesia) sulla natura, flora e fauna, alberi e coccinelle, umori e minerali, accodandosi al pensiero dominante e ai suoi luoghi comuni, persino su presunte acquisizioni da parte nostra di punti vista vegetali o animali sul mondo, come se potessimo essere carciofi, ecco che Villalta volge il suo sguardo, il suo cannocchiale poetico e filosofico, dentro quella domanda che da circa duecento anni fa vibrare e crepa tutte le presunte visioni del mondo della cosiddetta modernità: intendo la domanda del "Pastore errante dell'Asia" leopardiano. Quel "E io che sono?" non esaurisce anzi potenzia la sua carica nella epoca della fiera delle identità. Che è questo animale parlante? E il fenomeno della poesia come ne illumina il visibile e l'invisibile, l'emerso e l'imprendibile? La poesia, che è "l'opera dell'operare con e nella lingua", genera fatti dove la voce di uno si "estingue" nel divenire anche voce del lettore - non a caso dalla "Setta dei poeti estinti" del film avvia il suo arco di indagine Villalta, così risignificandone il termine. Opere di voce dinanzi a cui "indugiare", le poesie sono episodi di una "caccia". L'oggetto di tale caccia (e anche se non li fa, Villalta ha certo in mente i nomi di Caproni e Juan de la Cruz) è quella pantera che risale da bestiari medievali e appare nel De Vulgari di Dante. Pantera mai afferrabile e però, secondo la leggenda, dotata di un profumo. La poesia, dice Villalta, deve "conquistare quella forma che trattiene il profumo della pantera".
La riflessione di Villalta è ordinata e chiara, sfiora ma evita la pedanteria, e non lo è per andare al contrario, o per rifuggire le tante accese o oscure riflessioni dei poeti (lui stesso dialoga con quanto dicono Celan, Mallarmé, le indagini sul verso libero di Poesia di Marinetti e tanti altri), né per tenersi al riparo dalla tensione linguistica e immaginifica che migra spesso dalle poesie alle riflessioni poetiche dei suoi antichi o nuovi colleghi. Credo che tale controllatissima prosa, e polito ragionare, sia figlio di una tensione estrema. Quella che aduna senza troppa esibizione consuetudini e lungo mestiere e fiuto della stagione. La tensione che è nei gesti di chi sella i cavalli, appresta gli arnesi, o le armi, perché sa che la stagione del luogo comune è dura, che le avversità della diffusa e premiata mancanza di indugio non mancano. E quando la stagione è dura, il contadino friulano sa che deve mettersi lì mica a far tante storie, ma giù e raschiare, a preparare le sementi, a costruire e pulire gli abbeveratoi, a potare. E lo fa con qualcosa dentro che lo tormenta e lo illumina. Non sa, non vuole dirlo come si chiama quel nodo tra petto e cielo. Quella differenza di potenziale, o polarità tra fenomeno umano e destino che fa inesauribile la domanda leopardiana, riproposta dalla e nella poesia. Villalta lo sente quel nodo, come una pazienza e una eredità. E un'avventura. Ancora? Ancora.
Un pensiero riguardo “Il villano laborioso e la pantera”