Il viaggio di Fossati con De Angelis

Lo spazio vuoto e silenzioso di un possibile incontro

Milo De Angelis è un poeta tentato dalla negazione. Tentato. Come Montale, come Celan, come anche Vladimir Holan tentato, alla radice della sua visione umana e poetica, dal silenzio e dal vuoto. È un poeta visitato dal silenzio e dal vuoto, che accerchia e non aggira il silenzio e il vuoto. Vuoto denso, magnetico, il cui colore è ‘indelebile’, come per Sereni. La tentazione alla negazione, al denso vuoto, ha come risposta l’attesa spasmodica di un’apertura, di squarci vertiginosi, come in quel testo paradigmatico di Montale che è Forse un mattino andando … Lì la presa di coscienza del nulla e del vuoto coincidono, ma diventano al tempo stesso figura ed essenza della poesia e del suo farsi, come quell’ “arduo nulla”, all’inizio delle Occasioni, in cui “si spunta l’ansia / di attenderti vivo”) e pongono le basi, in De Angelis, per la radicale messa a punto di una ‘grammatica’ del prodigio e del varco (che si intravvedono attraverso il silenzio e il vuoto) dove il vuoto, come il nulla, (ma anche il lampo, “il peso nudo del lampo”) hanno prima di tutto una consistenza fisica, materica. La parola di De Angelis è una goccia che, nel silenzio più assoluto (spazio bianco), cade e produce quel suono che, insieme ai cerchi concentrici, si riverbera all’infinito (anche in questo è vicino agli esiti più alti di Celan, circa da La rosa di Nessuno in poi).

Certo, c’è sempre in agguato la voragine, sempre ad un passo dallo sprofondamento. I suoi versi e le sue costruzioni, sempre in bilico tra generazione e distruzione, appaiono simili ad un esercizio vertiginoso di equilibrio, anche quando sono più riconoscibili le modulazioni (aspre, irte, spezzate) su metri tradizionali (particolarmente l’esametro che “sussurra alla memoria”), con il rischio sempre incombente della caduta (che sì, sarebbe irreparabile) nel precipizio. E ciò valga per ogni poesia, per ogni verso, per ogni parola e sillaba.

Inoltre gli spazi bianchi delineano il vuoto generatore e sono altresì i vuoti dell’impossibile romanzo, spazi di ferite non suturabili. È il vuoto che rende impossibile il romanzo (di ascendenza montaliana) perché, come detto, è sostanza della poesia stessa. Ma sono anche salvezza possibile, il vuoto, il silenzio. Fare il vuoto e fare il silenzio. Preparano il prodigio, fanno intravvedere il varco e l’essenza delle cose (in Biografia sommaria, “battito arcaico delle stesse / mani dentro la corriera, ed era giusto che ogni cosa tacesse”).

Il silenzio, inoltre, come il vuoto, ‘preparano’ la parola e la parola, come il gesto atletico, prepara il prodigio. Possiede, il silenzio, nella sua valenza metafisica, un’impareggiabile forza creatrice. Dal silenzio emergono, ri-emergono le cose, a lui è affidato il ritorno, lo stesso sorgere della poesia. “E io ripeto quel cognome / lo costruisco a mano a mano / come una parabola tra le macerie”. Dal silenzio nasce “il soprassalto di ogni cosa”. Il silenzio e il vuoto, densissimi e vitali, si possono identificare con “il semprevivo di ogni niente” ( cfr., anche dal punto di vista della ‘memoria’ il Sereni sempre di Stella variabile). Il silenzio, inoltre, la sua metafisica, ha un rapporto privilegiato con la grazia laica, con il montaliano miracolo (“La luce parlava. Sulla tua fronte / il prodigio”, “Quelle ciglia / in cui brillava un ventaglio di grazia” è De Angelis che dialoga con il Montale della Bufera, con i suoi senhals). Lo stesso gesto atletico, la sua preparazione, chiamano il silenzio, avvengono nel silenzio: le palestre deangelisiane divengono in silenzio spazio di condivisione e di prodigio. In esse, nell’esercizio, si prepara come visto la grazia, si sprigionano “scintille di una grazia altera”. La grazia e il miracolo, legati in maniera privilegiata  a epifanie femminili, legano, intrecciano, accordano, uniscono all’origine, al suo continuo, compulsivo, ritorno.

Inoltre in pochi poeti, come in De Angelis, emerge da un fondo oscuro, pulsionale, sacrale, la natura bifronte del pensiero, dell’idea .

Non solo la natura, ma anche (o soprattutto) il pensiero (che delimita il farsi e l’emergere della poesia), è portatore di crudeltà, di scandalo, nella sua facoltà di falciare, immobilizzare, sezionare; anche se la natura, intesa anche come bios, non può mai essergli riducibile (“Mattina / strappata al pensiero”). La pietas è di ascendenza virgiliana, ma è proprio all’origine, come temibile risvolto, crudele (“La mano feriva / con una precisione vicina alla dolcezza”). La poesia di Milo De Angelis si fonda sulla messa a punto di un sistema ‘fisico’ rigoroso, dove allucinazione ed esattezza si intersecano, e si motivano l’una attraverso l’altra: “l’idea e lo scisma dell’idea”. Una fisica tanto ‘perfetta’ – in questo di luziana memoria – nel perseguimento dell’esattezza, quanto incrinata, fondata sulla vertigine e su equilibri precari, asintotica. Ed è proprio “l’alfabeto del momento”, in cui “l’attimo divenne nudità” ad essere vertiginoso e irriducibile, ad irradiare allo stesso tempo significazione (che in De Angelis è tutt’uno con l’idea di destino). Una fisica che diventa metafisica, ma il cui cielo è senza Dio, in cui il dialogo, virgiliano, è con le ombre. Ciò che, per esempio, è in Luzi, anche nei suoi picchi verticali, appianato, sorretto mano a mano da una luce di fede (prima purgatoriale e poi paradisiaca), in De Angelis è tortuoso, spesso  all’inverosimile, involuto, spinoso; dove la trascendenza attinge ad una religiosità quasi primordiale (in questo vicino a Stravinsky), raramente, o quasi mai, pacificato. Non c’è sintesi, non ci può essere. Solo coesistenza (col sacro), giustapposizione.

 

Giungo, a questo punto, a Millimetri.

Millimetri è il libro di una rivelazione. È rivelazione. È un ‘resoconto’, come, dantescamente, ‘sotto dettatura’, della rivelazione di “una folata sola dai compiti / delle vacanze fino all’acqua santa” (immagine che avrà un’eco, sostanziata dalla presenza del tu, in Quell’andarsene nel buio dei cortili: “tu ritorni da un refolo di vento”). Rivelazione del “silenzio frontale”, anche qui ricco, densissimo, dove giungerà l’universo, come un’epifania muta e definitiva; di “fuochi definitivi” tra “fuggiaschi nei mesi / dell’uva luglienga”, rispetto a cui le pupille tornano (sono) infantili. I campi di grano (le spighe, come una benedizione), la risaia, i giochi (“Punteggio nel centro / del fazzoletto …”) che riferiscono, essenzializzati al limite estremo, paesaggi di memoria (in senso antropologico, quasi ‘archeologico’, oltre che individuale), prevalentemente infantili e adolescenziali. La presa di coscienza del distacco, frontale anch’esso, da questi luoghi assoluti è definitiva e irreversibile. La giovinezza che ancora animava il sangue di Somiglianze, una “giovinezza”, serenianamente, che non trova scampo”, è qui come bloccata, pietrificata in sequenze apparentemente irrelate come di fermo-immagine, scolpita in una luce anteriore, classica, quella stessa in cui è immerso il “campo con le / sue biciclette sepolte”.

Si può parlare di Millimetri come di una quintessenza. De Angelis, qui, mette a punto una grammatica, la sua grammatica, il suo codice (è un lavoro inesausto e  progressivo. Scriverà “ritrovo una sintassi” più tardi, in Terra del viso). Millimetri, in questo senso, non è opera chiusa (anche se definitiva). Lo è forse formalmente, ma raggiungendo una vera ‘oltranza’ psicologica diviene vera opera aperta, un battesimo col fuoco e testimonia la ricerca spasmodica di un perno smarrito all’origine.

Il libro, estremo sì, rappresenta il meccanismo denudato, disarmante, della poesia deangelisiana, prima e dopo, forse escludendo l’ultimo Incontri e agguati, anch’esso (anche se di segno diverso) opera di messa a nudo totale e definitiva. La ricerca dell’evidenza materica, oggettiva, scultorea di tale congegno (ordigno), Medusa, lo “stringere / infiniti”, ha qualcosa di fatale. Gli enjambements, ripetuti e affannati,  rinviano all’accerchiamento e alla delimitazione millimetrica, così come le spezzature alla fine di verso di congiunzioni e preposizioni semplici e articolate. L’accerchiamento puntuale (da qui il riferimento, anche in altro senso, agli agguati)

all’interno della lingua (sillabe, parole, versi, poesie) e delle immagini si rivela sempre più coincidente con la presa di coscienza di un destino e ha a che fare con la natura paradossale della gioia. Gioia che coincide (in questo vicino al’ultimo Caproni, dal Franco cacciatore, e al Sereni di Stella variabile, di Un posto di vacanza e di Altro compleanno, ma, forse, con minore rimorso e conseguente chiusura psicologica) con la coscienza della liberazione: quella che nasce proprio dalla conoscenza, dalla percezione, sempre frontale, dell’ anello “che non tiene”. Il rapporto denudato e assoluto con la morte (senza finzione o rimozione alcuna) è segno di liberazione (da Dio stesso, o prima di tutto) e fonte, infine nemmeno poi così paradossalmente, di gioia (“Scendi, tocchi i casolari, / la rada gioia / dal paradiso e tutta la scarpata / si riempie / della cicuta ancora verde / mentre i cardellini mostrano / le ossa / nel fruscio della nostra / morte”  in Terra del viso). La gioia, ardua e dolorosa,  è data da “fitte di / luce”, o anche dal recupero, pur provvisorio, di una perduta dimensione familiare (“Tutti gioiscono / a cena, inazzurrita, una volta” , sempre Terra del viso, Nella storia). In questo senso, anche guardandolo rispetto a opere successive, Millimetri è il libro più ‘gioioso’ di De Angelis.

La gioia è, poi, riconoscere una direzione, riconoscersiMillimetri, rispetto a questo, è appunto un distillato, una quintessenza, la messa a punto definitiva, irreversibile (perciò ho detto massimamente ‘aperta’) del suo esatto codice, terrestre e “celeste” di un cielo muto. Un codice che decifra l’allarme, la presa di coscienza della perdita e del distacco da una heimlich, da una casa, da una patria della memoria rispetto a cui il distacco e l’esilio (da figure e luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza) aggravano la coscienza di morte, ma spingono altresì al duro confronto (non in senso apotropaico, non direi), al “patto” con la morte stessa (v. più avanti, su Incontri e agguati).

C’è il tema della prigionia, il suo campo semantico (“I prigionieri, hai detto, trovarono / un varco nella cella”). C’è l’immagine della lima, presente sia in Millimetri sia in Biografia sommaria; immagine che allude al labor limae, al lavoro preciso, all’inverosimile, sulla parola, alla ricerca estenuante dell’esattezza, e che soprattutto già allude all’immaginario carcerario (la lima che sega le sbarre nella ricerca di un varco, di una liberazione). Dove il carcere (segno di destino) genera inoltre un forte potere creativo (“il fulgido del chiuso”, il  “varco nella cella”). C’è anche l’immagine, il campo semantico, del ‘tagliare’, della ‘forbice’ (in Ora c’è la disadorna, è ulteriore allusione al distacco, ma anche possibile riferimento alla cesura ombelicale). Inoltre tale codice esatto dice anche, come dimostra tutta la direzione dell’opera di De Angelis, una volontà drammatica di comunione e di affratellamento.                             Ed entra in gioco qui, in modo assoluto e con molteplici valenze, il motivo  compositivo, formale della ricomposizione di visioni disgregate. De Angelis ricompone eliotianamente “frante immagini” da una terra desolata. In tale ricomposizione è la ragione di una poesia, il farsi di una poesia.

   Il libro è dunque contraddistinto dall’implacabilità, dalla depurazione da qualsiasi slabbratura, da una nettezza scultorea. Si tratta del suo libro più classico e più moderno al tempo stesso, se con il termine ‘classico’ intendiamo la classicità come visione, come idea di forma rispetto alla ‘modernità’, per esempio, dei motivi allucinatori e legati all’oltranza formale e psichica.

 

In tutte le opere successive di De Angelis, poi, avviene un transito, una traduzione (la traduzione che è una colpa sbagliare). In un luogo, nel suo luogo. È la progressiva appropriazione di un luogo e di un paesaggio, anche se di un luogo spesso ai margini, periferico, che ha connotati di sradicamento (da Terra del viso: “ho già saputo / che morirò in periferia”). I luoghi di un ritorno pavesiano, vicini da un punto di vista psicologico all’autore di La luna e i falò, sono piuttosto quelli della collina monferrina. “La terra appartiene / a chi l’ha abbandonata”: emerge il duplice movimento di abbandono e di appartenenza, di (auto)esilio e di appropriazione di una nuova patria, che sostanzia già radicalmente Millimetri, nell’urto frontale che registra il distacco dall’infanzia.

La maggiore affabilità, di cui molto si è parlato, a partire maggiormente da Biografia sommaria (che si può identificare, con più precisione, con una celaniana “svolta del respiro”) coincide con il progressivo riconoscersi (anche se non è ancora radicamento) in un luogo, nel suo luogo, dopo il ‘ritorno alla madre’ rappresentato dall’escursione nel dialetto ‘vergine’ monferrino. È una come una pausa, una tregua di riconciliazione, comunque una discesa, ma luminosa.

 

In Biografia sommaria:

 

Allontànati, dunque, allontànati

dal luogo che cadde di schianto,

non rimanere più accanto

ai passi giovanili, alla dimora

dell’istante …

 

L’esilio – in parte ‘destinato’ e in parte perseguito – che già in Dante (ma ancor prima in Virgilio modello di Dante) interviene sulla materia del canto, ne innerva il linguaggio, lo stravolge e lo modifica, ‘spostandolo’, non riguarda solo un mitico e concreto luogo eletto. Coincide con una condizione di clausura spirituale (talvolta anche fisica) appunto voluta, perseguita. Ha a che fare con l’ambito simbolico e psicologico della stanza minuscola (leopardiana, ma si pensi anche alla torre di Hölderlin). Stanze, celle, che rinviano all’isolamento, allo spazio da cui, grazie a cui, si può avere più netta, quasi spietata, la percezione lucreziana, tragica, dell’immensità e del cosmo. L’auto-imprigionamento è condizione privilegiata per raggiungere una visione più acuminata e totale del mondo (come avviene per il ‘murarsi’ di Holan); condizione privilegiata per entrare in contatto con il manifestarsi dei ritorni, che strutturano per De Angelis non solo la sua poesia, ma anche l’esistenza di ognuno. Condizione necessaria, quindi, per portare all’estremo una percezione cosmica (e sacra) del quotidiano, per dare bagliore alle cose, captarle come attraverso un radar, nell’eterno fluire, perimetrarle con un gesto metodico e rituale, al limite del maniacale, per congiungere in esse (aggrovigliate, non districabili) vita e morte. Così come il linguaggio è sostanziato, innervato, intessuto di vita e morte, soprattutto di quest’ultima. Il senso del sacro, forte e drammatico, che è separazione al limite dell’isolamento e dell’autismo (materia incandescente imbrigliata dalle “stringhe / del pensiero”), per quanto affacciato sul vuoto, sul “silenzio frontale”,  è restituito sul bianco del foglio (tanto più perché ad un passo dallo sprofondamento) con tagli di precisione chirurgica. Ogni testo è questo dire un mondo sull’orlo del vuoto e dell’abisso. De Angelis accerchia, tende agguati alle cose stesse, cattura e imprigiona.  È l’intimo, essenziale equivalente della forma stessa, del motivo della sua poesia: il punto esatto da cui si perimetrano, si invoca il manifestarsi di nuove ‘costellazioni’ (di senso e di suono); si invoca la parola che ha “colore stellare” e rispetto a cui, come in una liturgia, “tutto si stava preparando”. Si invocano affannosamente  nuovi battiti del respiro, ai limiti di un rimbaudiano deréglement. Anche gli oggetti-talismani (Eliot, Montale) sono oggetti portatori di presagio (agende , calendari…) da accerchiare, stringere, perimetrare, attorno a cui fare il vuoto.

Più si accresce la distanza dal tempo prediletto più si fa viva un’invocazione salmica che suscita i ritorni dalle cose stesse, dalla loro fisicità (qui ancora la lezione delle Occasioni, dei Mottetti).

 

Sempre da Biografia sommaria, dalla sezione Costruzione con fiammiferi:

 

“Nel colore stellare della parola

la creazione ricomincia

ogni sera, con la sola certezza

di una rima, con la sola

dimora rimasta …”

 

Da un punto di vista formale il respiro mima l’affanno, talvolta attraverso i puntini di sospensione e gli enjambements vertiginosi. Gli incisi, frequenti, scolpiscono il dettato e lo trafiggono. Il metro si contrae, improvvisamente, si strozza, a dare conto di un destino di perdita e di strazio (pur interrogato, il destino – “Come mai?” – è assunto con senso di tragica fatalità),  di una “vita, spogliata / di ogni cosa, la vita che”, alla fine, “è solo vita”. La modulazione è aspra, franta, l’accentazione talvolta estenuante, percussiva. Si cercano, in un paesaggio di catrame, con tratti infernali, in un’oscura densità, cieca, di vuoto e di silenzio (silenzio, “materia che / fu soltanto materia, nulla che / fu soltanto materia”), accensioni, bagliori metafisici. Possibili varchi. Così come si stagliano e rintoccano bagliori e trasparenze  sugli angoli della facciata della casa in primo piano, sui capannoni e sullo sfondo, nel  bituminoso e fosco, (parzialmente) irredento, Paesaggio urbano con camion (1920) di Mario Sironi.

Frasi si ripetono, transitano da una poesia all’altra, da un libro all’altro, in una dinamismo ossessivo, in una reboriana “gesticolazione verbale”. Ci si può riferire, rispetto all’invocazione, alla stratificazione compositiva e ad un livello ‘antropologico’, ai Salmi (sempre salmi senza Dio), ma, nel senso della pulsione onirico-ossessivo, anche al romanzo  postumo L’odore del sangue di Goffredo Parise dove il ripetersi di lacerti di dialogo e di descrizione, intercambiabili, da un capitolo all’altro, da una sequenza all’altra danno sempre più corpo ad un substrato meccanico pulsionale e ossessivo, a livello tematico e riguardante il meccanismo della scrittura stessa.

Può essere  a questo punto utile, di passaggio, e come appunto non solo formale, ricordare che l’elegia stessa è un richiamo ma è, fino per lo meno agli esiti ultimi, vissuta come qualcosa di colpevole, come portatrice di un senso di colpa (legato, appunto, alla tentazione elegiaca, all’insinuazione elegiaca rispetto alla ricerca di un tessuto, anche fonico, ‘scabro ed essenziale’ . La distensione del verso è una delle spie possibili di tale, maggiore, insinuazione. Biografia sommaria è uno dei suoi libri, nei Capitoli di romanzo (e prima, comunque, di Incontri e agguati), più ‘elegiaci’, e siano d’obbligo le virgolette.

Talvolta proprio il balenare, come un lampo, di una rima, spesso ‘facile’ è, sì, specchio di una “sola certezza” cui aggrapparsi, di una “sola / dimora rimasta” in una massa sempre più indistinta di parole e suoni; ma può essere anche (da qui la sua natura, anche ad un livello puramente ‘psicologico’, radicalmente ambivalente, al di là della dichiarazione poetica che riporto più avanti); spia anche di un cedimento, di una slabbratura, di una provvisoria resa al ‘cantabile’. La rima, come avviene nell’uso del dialetto, è dimora, madre, rifugio, ma anche, in questo senso, vulnus, lesione che minaccia il precipizio, da cui prontamente ci si trae ‘in salvo’, per esempio, da una parola in forte, precipitoso, enjambement con il verso successivo, a legare con fili d’acciaio ciò che è essenzialmente, all’origine, frantumato e scisso. Le rime ‘facili’, cantabili, sono talvolta affidate ai discorsi di voci esterne, virgolettati o in corsivo (diverso è il caso delle citate incursioni in dialetto monferrino, dover la rima viene armonizzata nel dettato, momento di assoluzione provvisoria). Analoga funzione di ‘salvare’ da ciò che è vulnerabile, di legare ciò che è sgretolante, e le crepe, l’hanno le figure della ripetizione, il balbettamento drammatico (v. Cartina muta, il finale), i celiniani puntini di sospensione che conducono, danno un pur provvisorio indirizzo, come su un treno o un vagone di metropolitana milanese, verso (o intorno) i luoghi della memoria e dell’esserci.

Questo muoversi, questo transitare della poesia di De Angelis è orientato come da un “magnete” (per usare la celebre immagine usata da Mandel’stam per Dante), ma è un movimento la cui gioia, la cui felicità (stretta, come ho evidenziato, alla natura dello stesso atto poetico) cammina su “fil di lama”, sul precipizio, sul “vertice / della prima caduta” . La poesia è supremo rischio, è un muoversi seguendo “le sillabe che ci chiamano / dai sotterranei”, un tenersi in bilico rispetto alla rovina (la “rovina celeste”). È assimilabile al movimento dell’acrobata, solitario: “Ecco l’acrobata della notte” in Quell’andarsene nel buio dei cortili.

 

 

Per nascere occorre un ritorno.

Tutto si mostrerà tra i macigni neri,

anche chi alzerà le braccia esultando

con un barlume di tutte le infanzie,

con l’acqua più in su della vita,

giungerà il richiamo, un’estate

che somiglia alla prima

via conosciuta, l’estremo nome

di ogni via.

 

Ecco, la poesia sopra riportata è uno dei testi di Quell’andarsene nel buio dei cortili che ne rivela maggiormente il carattere di testamento provvisorio. Si staglia dal primo verso il tema cardine della nascita (rinascita, ciò che si genera perpetuamente dalla “distruzione”) e del ritorno. Si consegna il ritorno (dell’infanzia, della parola “antica”, quando “di ombra / in ombra si abbrevia una vita”) come un annuncio. Se in Montale svanire era “la ventura delle venture”, qui si annuncia che tale ventura è il ritorno, per poi andarsene nel buio, sparire per riconsegnarsi a un silenzio gravido, che è a sua volta madre generatrice. Si staglia inoltre, richiamato soprattutto da Terra del viso, il tema (non solo autobiografico) della giovinezza umiliata, calpestata e ferita  e, per questo, scandalosa (anche in Cartina muta, la tristezza senza rimedio della figura femminile, in Donatella, il cui pianto è inconsolabile;  in generale i Capitoli del romanzo di Biografia sommaria), come la bellezza. Potrà trovare un riscatto? In Terra del viso: “Quel ragazzo / che si uccise al festival”; “Siamo tutti stracciati anche noi / coperti con il sangue del ragazzo”. “Il ragazzo / con la fronte squarciata sul marciapiede / sente il fischio degli dèi, un vortice / da stadio che lo sveglia / ai confini della città e lo solleva”uellQuell’andarseQa vèèèèè … La città vive di rintocchi apocalittici, spesso da incubo, come in Testori. I giovani, massacrati, straziati (frequente in De Angelis l’allusione, più o meno sotterranea, alla tossicodipendenza) sono vicini a Testori, si veda il mondo di In exitu. Tema dell’addio, poi, testimonia non è solo il massacro della giovinezza, ma di ogni creatura di cui una donna, che è l’amata, “arciera” e “trafitta” è immagine. In questo si può trovare una relazione con quel testo straziante e universale, com’è il libro di De Angelis, che è L’incoronazione di Sergio Quinzio.

Ed è proprio in Tema dell’addio che matura e si rivela in maniera esponenziale la natura di ‘dedica’ della poesia di De Angelis, dove il tema dell’opera stessa è il suo essere moderno e oggettivo canzoniere. Il Tu  femminile si delinea progressivamente nei vari libri come richiamo all’origine, sirena, “oscura melodia / di ogni adolescente”. L’opera di De Angelis è dedicatoria, quindi, come è stata definita, mi pare, non a caso, anche l’opera di Bassani; dialogica in senso tragico, però. Senza possibilità di conciliazione. I lacerti drammaturgici sono di ascendenza pascoliana, eliotiana (la concentrazione lirico-narrativa, a sedimenti, di un testo come Cartina muta è vicina agli Ariel poems) e luziana (un testo di Luzi, e indicativo in tal senso letto di recente in un’occasione pubblica in ricordo del poeta toscano, è Presso il Bisenzio).

 

Torno brevemente a Quell’andarsene nel buio dei cortili che, insieme a Millimetri, mi ha aiutato a precisare alcuni temi. “Transita nelle case popolari / la stessa forma destinata”. Il libro è testamento provvisorio e annuncio. La forma in questo caso riveste, nel suo essere “destinata”, un’identità ‘angelica’, quindi necessaria, di messaggero, di tramite.

 

Non rispondono all’appello, sono

dispersi ai bordi della terra, hanno

il segreto della linea che trema, sono usciti

dalle vene dell’essere amato e ora

potete vederli, di sera, verso le tangenziali

chiedere silenzio con un dito sulle labbra.

 

Sono quindi angeli, angeli senza cielo?

Quell’andarsene nel buio dei cortili è come presieduto dalla figura angelica. Sia figura di Angelus novus che volge il suo sguardo indietro, sulle macerie, sia ‘angeli dello sterminio’ (“e lampeggiano creature con la sciarpa nera”, “grande battaglia tra le tangenziali / dove ogni condominio affonda nel suo inferno”) che rimandano nuovamente  all’ultimo, pur diversissimo, Testori (come del resto certi paesaggi, certe atmosfere torride e nebbiose di periferia). Se non che il balbettamento testoriano dei testi poetici o dei versi per la scena, la visionarietà gravosa e cupa, sono in De Angelis rastremati, organizzati con precisione implacabile, ipercritica, spesso ridotti a un grado zero: “feroce ordine dei conti, / mano attonita, eternità  / mancata per un soffio”.

In De Angelis, inoltre, la ricerca dei meandri, le tortuosità, la perlustrazione di spazi (fisici e sonori) che attraversano tutta la sua opera si concretizzano nel giustapporsi di addensamenti e trasparenze, singulti e distensioni, accensioni e sobbalzi. Se in pittura si è parlato, spesso, tra altri, di Sironi, in musica si potrebbe nominare Alban Berg e portare la memoria al capolavoro  Concerto per violino e orchestra. (Alla memoria di un angelo). Si pensi soprattutto ai bagliori e alle distensioni nelle battute verso il finale, sino a quella nota, altissima al limite delle capacità uditive,  lungamente tenuta, stremata, e agli squarci e ai bagliori che dopo il dramma senza scampo  e senza consolazione si intravvedono). E a figure che si protendono, come in Celan, verso di noi, dimessi e terribili come angeli rilkiani che si muovono in sordina, si chiede:

 

insegnateci il cammino, voi che siete

stati morti, attingete le nostre

verità dal pozzo sigillato, staccatevi dal tempo

e portateci oltre le tragiche colonne

tra i fari dei camion e un piumino

getteremo le più alte

astrazioni in un sussulto di fiammiferi,

torneremo a casa, vi diremo.

 

Se Quell’andarsene nel buio dei cortili assume, come ho detto, l’identità di un testamento provvisorio, l’ultimo libro di Milo De Angelis, Incontri e agguati, uscito lo scorso giugno,  mostra a lettura (e rilettura) ultimate un carattere di opera più ‘chiusa’ e definitiva. Il poeta mostra, con disarmante sincerità, attraverso una costruzione musicale che ricorda (fatta eccezione per l’ultima composizione che ha preciso carattere di epilogo, di compendio) un ‘moderno’ quartetto d’archi, beethoveniano (mi riferisco però, come possibile modello, ai Quartetti ultimi), con la prima sezione che è un Andante, la seconda un Largo, la terza un affannato Presto e la conclusione che riprende movenze di Adagio – con movenze drammatiche ed escursioni tra luci e ombre elegiaco-purgatoriali. Siamo introdotti (con insolita immediatezza) nel cuore dei suoi temi e nelle profonde ragioni della sua poesia. Nel primo movimento De Angelis racconta, perché anche di racconto, di biografia meno ‘sommaria’ rispetto al libro del 1999, si tratta, della sua conoscenza frontale della morte (“Nessuno, morte, ti conosce meglio di me / nessuno ti ha frugata in tutto il corpo / nessuno ha cominciato così presto / a fronteggiarti …), la “trattativa” con la morte, la ricerca, con la morte, di un “patto”. Morte definitiva, senza la prospettiva (perlomeno etica) di altri cieli, che innerva l’essere già all’origine e come fo già sottolineato, con l’essere e la felicità originaria il linguaggio, in particolar modo quello conoscitivo, epifanico della poesia. La morte si insinua, è, già nella “giovinezza di frutteti”, in quella vita “che il vigore cosmico chiedeva” e nel “povero fiore di fiume” – che è il poeta stesso – e con il suo carico si aggrappa alla poesia. Smuove, oltre la vita e le sue promesse (“Mano / battuta due volte a formare / la sillaba della promessa”), il  linguaggio; è dunque ragione stessa del  linguaggio di una poesia (vissuta, talvolta patita, come esistenza) che ne viene così, talvolta orrendamente, incrinato e screziato all’interno (come accade in Vocativo di Zanzotto). L’autosvelamento della prima sezione, inoltre, l’autoauscultazione, producono esiti formali piuttosto rari in De Angelis, che sembrano talvolta dialogare con il Magrelli, non a caso, degli esordi (Ora serrata retinae) e degli esiti più recenti. “Questa morte è un’officina / ci lavoro da anni e anni / conosco i pezzi buoni e quelli deboli, / i giorni propizi, la virtù / di applicarsi minuto per minuto e quella / di sostare, sostare e attendere / una soluzione nuova per il guasto”; “Ero divenuto  ormai l’incarnazione / di ciò che perdiamo, in me si raccoglieva / tutto ciò che a poco a poco viene radiato / non prendevo più nota del giorno e dell’ora / mi assentavo / dall’antico fenomeno del mondo”.  La coscienza della morte avvelena anche l’incanto e l’elegia. Quest’ultima, pur sempre ‘avvelenata’ e con toni luttuosi riferiti alla minaccia dello stesso essere, ma più intima e raccolta, non è più legata, come si è visto,  ad un senso di colpa e riprende movenze, ritmi e misure da Tema dell’addio. I suoi rintocchi campeggiano nella seconda sezione, Incontri e agguati, che dà il titolo al libro e dove transitano, come ombre in una luce rada virgiliana, da purgatorio laico, i volti e le figure di una vita, i volti segnati dal tempo e le figure care, dal remoto passato al presente. Il figlio, il compagno di scuola, le donne amate, appunto, nel passato e nel presente, le figure dei compagni di sport e di giochi ritornanti e già irradiate di luce mitica e straziante, di cui può essere immagine, come del resto tante figure femminili nell’opera deangelisiana, l’ “amica mia”, portatrice di una “gioia senza dio” (così come sui volti delle figure passate si legge “il labiale di una gioia / conclusa e straripante”) … Di quella gioia che solo l’incontro con il destino ‘terreno’ non solo proprio, ma anche dell’altro – in uno spazio finalmente libero, vuoto, assoluto (qui la fondamentale lezione di Caproni) – può dare e che la poesia ha la facoltà di restituire. Nella terza sezione, raccontando e trasfigurando l’esperienza dell’insegnamento nel carcere di massima sicurezza, protendendosi con pietas sul destino “che nessun diario / raccoglie, nessun giornale, cronaca / o storia” e che “vive nel sibilo / di un ricordo, nel suono / della giovinezza” dei detenuti, De Angelis offre qui anche un immagine nitida (“aguzza e fragile” come la punta di una matita) di se stesso e del suo lavoro di una vita (di una vocazione e di un “destino”), di un uomo, di un poeta che in qualche modo ha cercato egli stesso la ‘cella’, l’isolamento per dar modo al pensiero e alla poesia (anche) di imbrigliare i fantasmi, la minaccia e l’incombenza del buio, di aspettare il momento in cui “il nulla / iniziò a prendere forma”, in cui prendono forma il “dolce niente” e “il cupo niente” (che sono “la stessa cosa per sempre”) e che offre al mondo un “impercettibile sorriso” prima di calarsi in un oblio che non è solo legato alla morte fisica, ma anche ad un abbandono di sé, ad una dimenticanza di sé che intravvede – finalmente – la luce di una possibile pacificazione.

 

Nella punta di questa matita

C’è il tuo destino, vedi, nella punta

Aguzza e fragile che scrive sul foglio

l’ombra di ogni frase e scrive

le mura cieche, l’attenuante e il soliloquio

il tuo destino è proprio qui, in questo

immobile trasloco, in questo impercettibile

sorriso che un uomo offre

al mondo prima di sparire.

 

Se nel corso dell’ultima opera De Angelis ricapitola, esponendoli, sovraesponendoli  in una nuova luce, definitiva, i suoi motivi, i suoi volti, il suo destino, il testo che chiude l’opera ne è un ulteriore compendio, in forma di Adagioepilogo (si è trattato di una narrazione, per non equivocare, irradiata dall’essenza stessa del fare poesia). Il ‘racconto’, la fabula, è già compiuto. Tutto, in qualche modo, si è compiuto e si è offerto all’oltre, nella metafisica senza Dio deangelisiana. “In questo luogo di corpi sedati / in questo luogo consacrato al rimpianto / si aggirano anime guaste e inattese / e noi camminiamo con loro verso la notte spoglia / camminiamo verso il punto saliente”; “Ora precipitiamo nella scintilla originale / ora si delinea il primogenito / viso smarrito in una folla di tulipani”. Ma nel finale, con un nuovo colpo da maestro, shakespeariano, viene nuovamente enunciata della poesia (non solo della sua) la suprema ambiguità, la suprema indecidibilità, tra tenebra e luce, amore e crudeltà; qualcosa che sempre dirà ancora “di noi che abbiamo ucciso la cosa più amata / e ora la tocchiamo, tracciamo per terra / un annuncio oscuro di linee / e parole, barlumi di volti e di città: un disegno / di salvezza, forse, o un’esecuzione”.

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