di Gianfranco Lauretano
Clemente Rebora, Poesie, prose e traduzioni, Mondadori, Milano 2015
Quello su Clemente Rebora è un ottimo Meridiano. La sistemazione del corpus reboriano è convincente e coerente con il percorso dell’autore e sviluppa ancor meglio quella che era la sistemazione precedente, peraltro riservata all’opera poetica, del volume garzantiano Le poesie curato da Gianni Mussini e Vanni Scheiwiller. Adele Dei invece, curatrice di questo Poesie, prose e traduzioni, ha dato spazio all’opera complessiva di Rebora, non solo ai versi dunque. È un grande merito: si pensi solo alla riproposta del lavoro di traduzione di Rebora, soprattutto, ma non solo, dalla lingua russa: Andreef, Tolstoi, Gogol, (curiosamente i nomi hanno conservato la translitterazione antiquata, un evidente omaggio a Rebora). Troviamo poi le prose critiche, tra le quali alcune recensioni sparse e introvabili e testi di straordinaria importanza storica, come Per un Leopardi mal noto, in cui Rebora leggendo uno Zibaldone da poco pubblicato, si tenga in mente, è tra i primi a studiare il rapporto tra il poeta recanatese e la musica. Troviamo anche G.D. Romagnosi nel pensiero del risorgimento, tratto dalla tesi di laurea, per uno sguardo al clima culturale e ideale, ateo e risorgimentale, in cui Rebora si formò, soprattutto per sotto l’influsso dell’educazione paterna.
Ma Rebora è poeta innanzitutto, uno dei grandi del Novecento. E la sistemazione di Adele Dei ne ricostruisce il percorso con rinnovata sistematicità rispetto alle edizioni precedenti, percorso di non facile ricostruzione perché oltre un centinaio di poesie, alcune molto importanti, non furono inserite dal poeta in nessuna delle raccolte pubblicate in vita. Queste raccolte sono: I Frammenti lirici (1913), i Canti anonimi (1922), Curriculum vitae (1956) e i Canti dell’infermità (1956/57). Tra i Frammenti lirici e i Canti anonimi, ad esempio, si situano le importantissime poesie del periodo della prima guerra mondiale (si pensi a Viatico, tra le altre) o anche le deliziose Dieci poesie per una lucciola dedicate a Lidia Natus, la musicista russa con cui ebbe una coinvolgente relazione; c’è poi la grande fase delle poesie religiose, spesso d’occasione riguardo ad avvenimenti legati all’ordine rossiniano in cui entrò dopo la conversione o a ricorrenze del calendario liturgico: un primo gruppo si trova nel capitolo Poesie religiose, poi gli Inni e un ultimo raggruppamento in Poesie varie, tutte sezioni in cui il criterio tematico sembra intrecciato con quello cronologico. Anche in questo caso si trovano testi straordinari ed esemplari, come Amor dammi l’amore oppure l’inno Il gran grido, solo per citarne un paio.
Ci voleva, dunque. La figura di Rebora, mai imposta dall’apparato critico à la page non è mai mancata nella linfa della poesia italiana contemporanea. I poeti soprattutto – Pasolini, Caproni, Betocchi, Montale – se lo sono sempre tenuti nel cuore e nei versi, com’è ormai assodato dalla filologia più avvertita. Il suo percorso umano e poetico, in parte rovesciato rispetto a quello della letteratura a cui appartiene, continua a essere punto di riferimento persino per i poeti più giovani. Tra gli innumerevoli elementi di valore della sua poesia, rimane viva la genialità metaforica, che consiste non solo nell’invenzione retorica di metafore originalissime, ma anche nel far vivere entrambi gli elementi della figura alla luce metafisica che ha evocato ambedue. Nella metafora di Rebora, insomma, pulsa sempre un terzo elemento, il senso misterioso che la scintilla dell’incontro tra i suoi due termini riesce a evocare, con un effetti di apertura che infinitamente si rinnova. In un certo senso la poesia di Rebora è il più efficace superamento della secca dannunziana, da cui pur parte quasi imitandola, dove gli effetti poetici, pur geniali, si chiudono in una finitezza autoreferita. In Rebora, fin dall’inizio tanto dannunziano, carducciano e pascoliano, ciò non accade. Al contrario la vitalità di questa poesia viene da prima di essa e, attraversandola, va oltre.