di Davide Rondoni
Giancarlo Pontiggia, Il moto delle cose, Mondadori 2017
Bisogna ringraziare alcuni poeti poiché compiono delle discese agli inferi. Passano una stagione all’inferno e poi la dicono. Questo libro di Giancarlo Pontiggia, poeta da sempre definito da una critica superficiale poeta elegante e raffinato - io ho sempre sentito invece tremare qualcosa nella sua voce, così saggiamente impostata sul classico, appunto perché il classico è tragico - documenta la stagione all’inferno di un cambio di età e di energia personali. Vogliamo chiamarla depressione? No, perché non nasce da lì la voce poetica, ma da una incessante condizione di interrogante, in qualsiasi condizione, compreso il cambio di energia che la vita, fatta di scelte e circostanze, a volte ci impone. E soprattutto non è questo un diario ma una esemplare opera di arte, una scolpitura di parole e ritmi che danno voce a una esperienza universale. Pontiggia infatti sceglie - e per lui non poteva essere altrimenti - una interrogazione intesa subito come di voce comune. Il parlante parla di un “tu”, di un “uno” - a cui la voce del poeta si rivolge o la cui esperienza indaga. Il “tu” con cui vi si rivolge è distanziante e accorato al tempo stesso. Si guarda allo specchio? Certo, ma l’immagine riflessa nello specchio, restando la medesima voce, potrebbe essere quella di tantissimi. E raggiungere l’esperienza comune di interrogazione sul moto delle cose.
Quest’uomo di cui si parla, così diffuso tra uomini e donne e anche giovani della nostra epoca, sente uno smottamento, percepisce distintamente il “sovrano, fisico, delirante// moto delle cose”, sente che si “smontano/ le muraglie del mondo” e che “Si squaderna/ il principio scosceso/ delle cose, la sua broda// intonsa, fermentante”. Ma è appunto la voce di un poeta che ne parla, e con termini di esattezza dantesca e scientifica (la immagine dell’universo come libro, presa dalla Commedia, intonso aggettivo librario, brodo primordiale, termine inglese dei fisici per lo stato iniziale della materia) ovvero con grande consapevolezza. E infatti in una delle prime poesie avverte: “Pochi versi, ma veri./ Valgano per te, come per me.// Che siano limpidi - per guardare il cielo/ alto - / e severi, se così è il tuo animo.”
La severità, habitus che Pontiggia ha sempre coltivato nel suo percorso poetico e intellettuale, non è la polverosa retorica dei professori - pronta a trasformarsi nella sua uguale e contraria beceraggine, come l’ex docente e poeta sa bene - ma un senso di misura che vive sopra la dismisura data dal senso tragico della esistenza, quantunque percorsa da fioriture di gioia e piacere. Ma questo è il libro dove le fioriture, le luci sono cadute o meglio, per stare nel termine ricorrente, tutto si è fatto opaco. Un libro che espone sull’abisso opaco di una profonda estraneità al vivente, all’origine e al moto delle cose, espresso in alcuni luoghi con metrica classica affranta e con lessico e movenze quasi luziane ma, appunto, depredate di luce, di stupore e consegnate al sottovuoto mentale, alla legge ferrea del calo di forze. Un libro forse di passaggio, che ha nella regressione pascoliana del migliore Pascoli tragico un antecedente illustre, ma di certo è un libro importante di Pontiggia. E non perché approda finalmente e giustamente alla collana de lo Specchio dove affianca, per simile energia, il suo a un altro libro di segno analogo ma giocato su altre tastiere di Mario Benedetti autore di “Pitture nere su carta”, ma perché mostra in un certo senso il retro dell’arazzo della poesia colta e sensibile che ci ha finora donato, o se non l’intero rovescio dell’arazzo almeno una sua parte. Se in Benedetti le pitture erano di nero su nero, qui abbiamo la vastissima gamma del grigio su grigio (maestria di poeta pittore) - e la differenza di luminosità è dovuta forse a una voce che si sente all’inizio del libro e poi più. Ma luminosità senza luce, ovvero opaca, ancora, e che non elude nulla, nulla censura, nulla pare riscattare anche perché - a differenza di un altro lombardo senza riparo, Testori - qui non c’è nulla da riscattare, non è centrale il tema di una colpa o peccato, ma solo punto, calo di forze, sperdimento. C’è più Montale che Testori, volendo dare i due poli più forti della poesia lombarda novecentesca.
Sbaglierebbe chi leggesse questa prova di parola sospesa in mille labirinti del grigio, in opachi meandri del sensibile, come un episodio, una zona altra da un’opera contrassegnatasi fin dagli esordi, e con coraggio, nel nome di un compito alto della letteratura. Quella altezza del compito riguarda anche gli inferi della coscienza, della fragilità, della dispersione delle energie vitali. La pronuncia coltivata, mai egocentrica, rispettosa (cosa significa classica, se no?) che nei libri precedenti legava il contemporaneo alla dimensione più ampia del tempo qui, come in un’inversione di prospettiva, diviene indagine dall’interno, realizzata a partire dall’esperienza di un individuale sperdimento nel tempo, nell’esaurimento del suo senso percepito. È come se quanto ha finora nutrito la consapevolezza forte della natura della letteratura (che è relazione della parola con il mondo e avventura di senso, o non è nulla, è merda come diceva Rimbaud) fosse venuto precipitosamente a verifica, fosse entrato violentemente in questione nella possibile perdita del senso del tempo dal punto di vista esistenziale. Ma si tratta della medesima partita, della medesima “quête” come dicevano i filosofi che non si sottraevano alla crisi, e insomma della medesima violentissima prova. E cosa ci deve offrire la poesia se non anime alla prova? Troppi modesti filosofeggiamenti, si vedono, troppi riparati stilisti, troppi cronisti sentimentali (noiosi e senza smalto) - anche per questo occorre ringraziare Pontiggia, che non esita a portare la poesia dove davvero parla la sua lingua sempre nuova: sull’orlo dell’abisso.