di Isabella Serra
Coloro che si accostano al Libro Rosso. Liber Novus di C. G. Jung, Bollati Boringhieri, sono innegabilmente attratti dalla ricerca di un qualcosa che va oltre il mero piacere di una lettura fuori dalle righe. Sono coloro che vorrebbero fiondarsi nei recessi dell’oltre, che tanto hanno esperito, che tanto hanno sofferto e gioito e che continuano a rimanere annientati dal senso enigmatico della vita. Tale fu il presupposto che mosse lo stesso Jung a scrivere il Libro: “Ho imparato che, oltre allo spirito di questo tempo, è all’opera anche un altro spirito e cioè quello che governa la profondità di ogni presente. Lo spirito di questo tempo vorrebbe sentire di cose utili e che valgono. Ma quell’altro spirito mi costringe comunque a parlare. Qualsiasi giustificazione mi è superflua, perché non ho scelta, ma devo farlo”.
Poiché non sarebbe proficuo scorrere gli eventi del Libro e/o in qualche modo riassumerne i contenuti, ho scelto di concentrarmi su un solo capitolo dal titolo grandioso “MISTERO. Incontro”.
Stando bene in guardia dal fare supposizioni, essendo il libro né un romanzo, né un trattato di psicologia o di filosofia, né, a mio avviso, un libro di rivelazioni, importante per Jung è trovare il magma che sorregge le nostre reali spinte vitali. Questo libro è una visione. E come tale, se numinosa, può dire qualcosa a ognuno di noi.
Dunque, Jung fece un sogno. Vide un vecchio, dall’aspetto sembrava un profeta (barba grigia e abiti orientali). Ai suoi piedi giaceva un serpente nero. Un po’ più in là una casa da cui esce una ragazza, una bella giovinetta, cieca.
Il vecchio si presenta. È Elia, il grande profeta dell’Antico Testamento. La giovinetta è Salomè, la nipote di Erode, la famosa ragazza che danzò di fronte allo zio chiedendogli in cambio la testa di Giovanni il Battista.
Elia dice a Jung che Salomè è sua figlia e questa aggiunge, rivolta a Jung incredulo, (poiché come poteva essere quell’assassina la figlia beneamata del grande profeta Elia?): “tu mi amerai”. Jung è sconvolto e gli pare di soffocare.
Ma Elia spiega: “Salomè, mia figlia, ha amato il Santo, Giovanni il Battista. Dal suo amore la riconoscerai”.
Ma come poteva amarlo, incalza Jung, se ne ha chiesto la testa? È forse questo l’amore?
Poi l’immagine del serpente, quello scorto all’inizio del sogno. Jung lo vede avvolgersi su un albero e nascondersi tra i rami. Poi il suono di una musica primitiva, un tamburello, quasi a essere, forse, un altro simbolo, quello della danza e del ritmo, elementi primordiali della creazione.
Secondo Jung, Salomè rappresenta l’elemento erotico ed è cieca perché non vede il significato delle cose. Elia è la personificazione del vecchio saggio e rappresenta l’elemento conoscitivo. L’uno è il pensiero che porta il caos a prendere forma, l’altra è il piacere che ama la forma che accoglie in sé, ma distrugge quella che non accetta (Erode la desidera. Lei lo rifiuta. Lei vorrebbe baciare Giovanni Battista. Lui la rifiuta. Lei lo condanna a morte). Il pensiero non mette nulla in movimento perché è statico. Il piacere è una forza e mette tutto in movimento. Ma entrambi, pensiero e piacere devono esserci, prima l’uno e poi l’altro. E ciò che permette l’unione tra i due è il Serpente, ovvero la capacità di comprendere l’assoluta diversità delle due nature e passare dall’una all’altra, obbedendo di volta in volta alla legge dell’una o dell’altra, snodandosi ora a destra ora a sinistra, attraverso il desiderio. Il Serpente si pone in mezzo tra chi pensa e chi sente.
Entrambi pensiero e piacere hanno bisogno l’uno dell’altro: il pensiero ha bisogno del piacere poiché senza di esso non si approderebbe alla forma. Il piacere ha bisogno del pensiero poiché senza di esso cadrebbe come acqua verso il basso, finendo nel fondo del mare e nell’inerzia mortale.
Il pensatore accolga dunque in sé il suo piacere, colui che sente accolga in sé il proprio pensiero. Questo porterà a trovare la via, conclude Jung.
Felice tu che conosci la via. Mi dissi io. Ad ogni modo è così (continuai io a dirmi).
Ho trovato questo sogno di Jung illuminante poiché sembra si inserisca in una dinamica forse un po’ in disuso oggigiorno, ma importante. Una dinamica che chiama in causa il piacere e l’orrore di perdere la testa. Devo infatti chiamare in causa l’altrettanto in disuso o strausata parola: “innamoramento”.
Quando ci si innamora, ci si ritrova ad essere con le spalle al muro, una condizione in cui tutto è a rischio. Il tuo metro di giudizio diviene l’altro: la persona o la cosa di cui ti sei innamorato, che può essere anche un lavoro, una passione, la via per una carriera, l’arte. Ti metti a rischio, il rischio di essere giudicato, poiché ci si rimette esclusivamente al giudizio di un altro: “Ti piaccio, non ti piaccio”. E, ad ogni modo, si ha il coraggio di essere giudicati per un semplice motivo: perché ciò che domina qui è il piacere. La persona innamorata è cieca, come Salomè, governata dal piacere, il proprio piacere e quello dell’altra persona o cosa, se si è in grado di farglielo provare (con la danza e il ritmo, aggiungerei, continuando il nostro linguaggio simbolico). In questa condizione tutto è possibile, poiché si vorrà imparare dalla propria possibilità di reggere al piacere, si è pronti ad accettare il rischio, ad essere giudicati. Perché è cosa buona, lo senti. Il pensiero (Elia) arriva, deve arrivare, poiché è padre del pensiero erotico (Salomè) e poiché senza pensiero, come si è già detto il piacere si sfascia. Salomè, l’elemento erotico, è comunque la prima a riconoscere le cose.
“Dal suo amore la riconoscerai”.
Ed è una cosa difficile, non facile.
Come la rima amore/fiore, la più difficile del mondo:
Amai trite parole che non uno
osava. M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.
(Da “Amai”, Umberto Saba)
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