di Davide Rondoni
Il volume già quasi monumentale con opera "quasi-omnia" che la Nave di Teseo, con postfazione di Giorgio Ficara e noterelle critiche raccolte qua e là, ha pubblicato mesi fa di Alba Donati è un bel dono e una bella sfida. Potente, pur sotto quel titolo lieve "Tu, paesaggio dell'infanzia". Dono per la qualità intensa di questa scrittura, la vastità culturale abbracciata da questa grande lettrice, la tenuta dello stile. Alla presenza di tale voce importante del nostro panorama ho dato un piccolo contributo volendo far esistere in una mia collana Marietti il secondo libro di Alba, quel "Non in mio nome" che forse è il più acceso, esagerato, teatrale tra i suoi. Dunque un volume giusto, adeguato, meritorio. Con i crismi. Coronante. Eppure a lettura ultimata verrebbe quasi da tornare indietro per capire che cosa abbiamo visto davvero. Ok, il buon libro di una ottima poetessa, in linea con il suo tempo, con i suoi maggiori letterati. Ma resta una inquietudine, un sospetto. Cosa strappa la voce di Alba da un lato a quella semplicità esibita, e dall'altro a quella foresta di citazioni, di ammiccamenti, di dediche interne alla vita dei libri (a cui s'è votata con passione, costruttività e riconoscimenti)? Insomma che cosa fa convivere in una voce la iperletterarietà e la canzoncina contadina, la mappa della letteratura "comme il faut" un po' da salotto italico e la selvatica natura di bambina di provincia? Cosa lega il luogo comune teorizzato, politico, condiviso con molta letteratura del nostro Paese, e le delicatezze fuggevoli, intime, personali magistralmente espresse in poesie di amore e addii e sorprese?
Un grande ingaggio io vedo, un fenomenale combattimento attraversa il libro. Una guerra violentissima. A volte questo corpo di drago emerge, se stai attento senti che è il suo respiro a far vibrare veramente i versi, ti accorgi che lì, sul tremare delle sue squame prendono la loro vera risonanza.
Alba ha combattuto lungo tutta la sua poesia con la morte. Lo dice il suo nome di donna, lo dice la necessità di ripetere milioni di volte "io", di mettersi in scena, di toccare oggetti e paesaggi e persone come dire "ok, ci siete, ci siamo", lo dicono le poesie alla figlia, agli amori, alla donna a cui ha dedicato poi la sua scuola di scrittura a Firenze, la umile Fenysia. Alba ha combattuto frontalmente e segretamente, scrivendo e partorendo, amando e attraversando la letteratura e sempre pensando di essere altrove. Ovvero là, come si vede in varie poesie, in un luogo di confine, un po' ricreato in stanze senza televisione e piantine da curare, dove ci si possa sottrarre al "censimento" cioè al conto dei vivi, che in realtà per lei risuona come il conto dei morti. La letteratura le ha dato la parvenza di essere una casa, ma Alba è troppo guerriera e terragna per crederci fino in fondo. L'ha trattata come una casa, sì, l'ha curata e servita con intelligenza e forza. Ma l'energia di questo combattimento, di questo drago guerriero sulla cui pelle i versi, appoggiati, davvero suonano e cantano e piangono e si frangono - ecco cosa sostiene l'opera in versi di Alba. Un combattimento sacro e contadino, seppur circondato e nutrito da affabili amicizie letterarie. Che nel leggere il libro si "congedano" via via verso le poesie radicali, finali, fatali. Al centro della biblioteca ha portato il fremere di quel combattimento, lordo, spaccato, ferito. Una urgenza di femmina che sa che il suo destino non è appena fronteggiare la morte propria, come accade al guerriero maschio, ma quella dei figli, e quindi dei figli di tutti, a Beslan o in altri angoli sperduti della storia. Politica in quanto femmina. La letteratura, passione ormai deposta nella casa di un vecchio critico sullo svincolo autostradale, non è mai stata una passione sufficiente per Alba. Ora il suo libro – paradossalmente - lo mostra in modo sincero e quasi sconcio. La passione è la vita, ma in faccia alla morte.
Del resto, il titolo, "Tu, paesaggio dell'infanzia" evoca - oltre alle terre dove Pascoli cercò d'esser il poeta fanciullino pur essendo ossessionato dalla fine - quel che dice il Novalis citato da Jiménez nel "Platero y yo": "dove ci sono bambini c'è sempre una età dell'oro". Come dire una età senza morte. Poi il paesaggio muta, la storia preme, i tu si moltiplicano, le parole diventano non solo favole ma scambio, commercio, grida, e si entra nella contesa. In un combattimento che mai la letteratura può vincere, solo l'amore. Come sapeva l'autore del Cantico dei Cantici, il non libro senza autore.
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