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Il merdùle – Racconto

di Angelica Grivel

Lo stridio brusco delle ruote che frenano, sibilando con foga sull’asfalto, annuncia l’andatura avventata del suo essere ancora prima che le gambe secche appaiano dalla portiera. Lo sforzo di celare un qualunque tipo di reazione o pregiudizio mi riesce agile, dato che ogni parte del mio viso sembra giocata sulla copertura: lui non può leggere il mio sguardo, le mie provvidenziali lenti da sole ne oscurano le perplessità, e quanto al chirurgico azzurro della mascherina, fortunatamente, opprime ogni piega labiale del mio scetticismo. Non so perché, ma mi sento già a disagio.
L’evento è un servizio fotografico nell'area di Pula, tra le sabbiose distese bionde delle dune di Piscinas; è un set che dovrebbe essere incentrato su suggestioni da folklore pienamente sardo, a giudicare dagli schizzi d'ispirazione per pose e stile che ho visionato su Whatsapp con la fotografa e le sue assistenti. Tra le altre fantasie cromatiche e di sfondo, la squadra parrebbe aver ingaggiato anche un incombente Merdùle barbaricino.

Apprezzo il fatto che mi sia stata offerta la garanzia di un accompagnatore.
Sospiro, con un istinto di fiducia.
Il tipo, ad ogni modo, parrebbe non aver preso coscienza della pienezza del quarto d’ora del suo ritardo. Il punto d’incontro è un distributore appena poco lontano da Cagliari, attorno al quale si affossano blocchi di casolari dall’aspetto remoto, finestre come occhi pallidi su snodi di strada agri. Rattristano ogni mia velleità al buonumore. Concentro la mente sull'approssimativa ora di viaggio che mi attende, mentre lui mi concede il garbo di raccogliere lo zaino che porto con me dalla mia spalla; un gesto di convenzione per il quale appronto la neutralità di un grazie e l'accenno della curva di un sorriso che lui potrebbe forse intuire, se magari mi guardasse in viso. In realtà, parrebbero essere ben altre, le curve del mio corpo cui presta attenzione; li sento quasi laminare, quei suoi occhi dalle palpebre incavate e dalla sclera opaca, come se cercassero freneticamente di scorgere punti d’interesse nel susseguirsi delle mie linee fasciate da uno dei miei pratici abiti da viaggio. La cosa mi stizzisce. Cerco tuttavia di non farne sembiante, mentre libero la vista dallo spettro degli occhiali scuri e respiro l'aria dell'abitacolo della sua auto, spropositata, temo, rispetto agli spigoli brevilinei del suo corpo. Il viaggio non è nemmeno iniziato, per l'amor del cielo: non posso permettere alla sollecitudine dei miei disgusti di rapirmi. Sarò gentile: voglio scoprire la sua anima.

Sin dalle sue prime movenze alla guida colgo una disinvoltura ai confini dell’incauto: trovo che la facilità con cui il piede preme sull’acceleratore sia un’esibizione volontaria di sfacciata imprudenza. È indubbio che lui creda che sia divertente, o forse pensa di destare una qualche forma di mio stupore ammirato? Bada che non sortisci alcun effetto, correndo così, vorrei ingiungergli, mentre il tachimetro traballa verso alture numeriche da vertigine. Gli intimo decelerazioni, un filo di sdegno nella voce ferma, mentre ravvivo il galateo umano e comincio ad accatastare la ritualità di certe domande comode, fomentando il flebile auspicio che lui sveli di colpo un brio dialogico salvifico. Sono paziente, mentre assecondo ogni piuma del mio ventaglio argomentativo, oscillando dagli studi alla famiglia, dalle amicizie allo scenario prospettico futuro, dal gusto musicale alla passione di vita.

Ahimè, lui fa scempio di ogni mia ancorché labile attesa. Scardina i miei intenti costruttivi, limitando le risposte a fiati monosillabici, l’esasperazione dell’accento locale in ogni parola che mi riserva. Non condividiamo alcunché: i miei timori assumono la sagoma delle sue repliche. Ogni frase si schiude con interiezioni d’incertezza, uno straziante strascicare di “eeh, boh” che sovente non trovano compimento. Racconta la sua decisione di abbandonare il tecnico nautico di viale Colombo dopo alcuni anni di sistematiche bocciature come a sfoderare un trofeo: avrà ventun anni suonati, ma l'atteggiamento lo veste di una puerizia sconcertante. Gli domanderei dettagli, le vicende umane mi inteneriscono, ma lui frustra i miei propositi d’indagini interiori e orienta di colpo un elogio della discoteca. “Una delle mie cose preferite” declama; il timbro, di norma quasi garrulo, è ora vagamente roco.
“Pensa tu, io invece la ho in abominio” borbotto.
Insisto, però. Gli chiedo cosa lo appassioni tanto dell’ambiente. Non nota la voce scialba con cui glielo dico, l'esplicazione fisica del mio disinteresse. Lui tace, ci pensa. Per poi scandire, in uno stato di ebrezza trasognata, con tanto di gestualità delle dita in successione sincopata: “Le fighe, la sbronza, Sfera Ebbasta”.
“Mh, capisco. Beh, nel mio caso, è più facile che mi trovi in una biblioteca. O in una libreria”.
“Non ho capito, ma fai la modella o scrivi libri?”
Triplica la b mentre la velocità impazza nuovamente, in una curva ampia. Deve aver anatomizzato il mio profilo Instagram. Come motivare, viceversa, il suo accesso all'informazione del mio esordio letterario?
Annuisco, ma prima di riuscire a esplicitare la mia premessa di risposta, lui mozza il mio intento, condannandomi a una esclamazione che ha un che di conclusivo, piena di trionfale entusiasmo: “Ah, come la De Lellis!”
Mi voglio arrendere. Lui, però, non demorde.

“Sei fidanzata?”, chiede, in un sussulto di audacia, mentre la lingua indugia sul labbro superiore, a inumidirlo.
Sospetto che lui conservi di sé l’idea di essere fisicamente aitante. Persiste nella sua evidente esigenza di mostrare la pancia: tiene il volante con una sola mano, mentre l’altra scivola verso il fondo della t-shirt che ostenta il marchio di grido in scritte vistose, per poi sollevare il tessuto, la carne all’aria, svelata in tutta la sua magrezza pigra, appena incongruamente cascante a dispetto della verde età che lui indossa con una specie di noncuranza già arresa. Le falangi asciutte si orientano sulla pelle, con fare assente, nell’area dello stomaco, una debole peluria tardo adolescenziale a popolare l’ombelico e la zona sottostante. Non riesco a capire se il suo sia chissà quale tentativo di sfoggio addominale destinato specificamente a me, una tendenza al massaggio da gastrite o soltanto la sgradevole abitudine di un vezzo mai emendato. Mi risolvo a credere che sia un automatismo grottesco.
Lo ignoro e spero in un qualunque segno di approssimazione alla meta.
“Comunque noi siamo opposti”, dice d’un tratto, come se stesse prestando voce a un pensiero incompiuto.
“Me ne rendo conto, sì”, asserisco in risposta, con convinzione. Perlomeno, per una volta, ha intrapreso lui il principio del discorso. Anche se non mi piace il suo incidere la voce su quel ‘noi’.
“Però gli opposti si attraggono. Non so se lo avevi mai sentito prima”, ammicca, mentre apre lo steccato del suo sorriso storto: "Oh, devo fare il modello anche io con te oggi”.
“Tu?”, chiedo, raggelata.

Lui annuisce, mentre si abbandona a uno sbuffo d'impazienza:
“Sì, però mo' con questo caldo mi devo pure mettere la pelliccia e la maschera da caprone dei pastori di paese, quei gaggi”.
“Ah, i gaggi sarebbero loro, eh?”
È troppo: un tracollo definitivo al nostro già misero dialogo.
Mi comprimo nel sedile e rivolgo le mie trascendenti interrogazioni al profondo turchino del cielo.

2 pensieri su “Il merdùle – Racconto

  1. Delizioso. Piccola perla, immagino autobiografica, che leggi scorrevole fino alla fine, percependo il rumore del mare, lo stridore dell’auto, e portato dentro il dialogo incomunicabile dei due giovani.
    Unico mio problema, capire cosa sia un Merdùle, ma Wikipedia ormai ci semplifica (peccato) la vita.

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