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“Il lato basso del quadrato” di Giuseppe Vetromile

di Monia Gaita

In questo libro Giuseppe Vetromile imprime al suo percorso di scrittura un risoluto cambio di rotta sotto il profilo concettuale ricorrendo alle dinamiche, agli spunti esegetici e alle prospettive ordinatrici della riflessione filosofica. Scie di materialismo meccanicistico epicureo, di pitagorica regolarità matematica e un inno al creato di soffio francescano pervadono le pagine in un costitutivo di stampo oracolare. È come se l’autore nell’età della maturità e in una bilanciata tappa evolutiva, prendesse a interfacciare, nella ricerca di un accordo dirimente, sfera fenomenica e metafenomenica, forme sensibili e Principio eterno, accidentalità e necessità. L’uomo soggiace al regime del caos, all’indirizzo dirigistico del divenire, al comporsi e allo scomporsi inarrestabile degli elementi. Leggiamo a pag.38: “Ma noi cantiamo in perenne dovere verso la terra / che ci fu madre / e ora non raccoglie che un decimo / della nostra gloria (si staccano le nostre ali ad una ad una / cadono nella poltiglia di fango: / concime per futuri angeli?) / Perduti noi siamo mia cara / nelle viscere della materia.”
L’autore è affetto da una somma di diaspore dal pronunciato aroma repressivo il cui fulcro nutre un’ontologia aguzza, scabra e inospitale. La penuria di certezze salpa per la difficoltà a dire, a forgiare in versi definiti il rovello interiore, lo scatto speculativo di chi, assediato da troppi smottamenti, vorrebbe almeno convertirne un’aliquota di pena e dirompenza: “Ancora mi attacco alle parole sbriciolate del vocabolario – dice a pag.44 – le ultime che si attardano ai margini della pagina / per trasmigrare oltre il comprensibile rigo / che le allinea ordinate / in un senso ho perduto l’orientamento / nell’opposto ho intravisto il nulla / nel mezzo c’è lo sgomento e la rassegnazione / dello stare incognito e indeterminato / una coppia di vocali è intanto caduta in basso / non ha più motilità / né significato / e io non ho più nulla da mettere in chiaro / in questo cielo a una sola dimensione / anche il Creato si è schiacciato sul foglio / senza nessuna speranza / è il mio racconto successivo.”
Ecco che la poesia prova, sugli spasmi e gli strappi che ci avviluppano, a fabbricare un qualche plausibile bozzolo di paradiso che funga da riparo alla nostra condizione mortale. Giuseppe Vetromile, in perenne e infelice contesa con se stesso, lascia confluire i contenuti del proprio investigare, compresi i più apparentemente irredimibili, in un condotto espressivo di altissima concentrazione metaforica, di egemone e dolente tensione verso l’assoluto. “E con le mani nel cielo – pag.72 – sbrogliare la mia speranza / affermando la mia gioia-mestizia / inconcludendo il da farsi / interrompendo itinerari e transiti verso il confine / dilaniarmi fino al tramonto senza più un grammo di luce / io polvere infinita del mio astro sgretolato / e con le mani nel cielo / affondare nel diafano morboso dubbio / che tutto stia lì / oltre il condominio arrugginito / di queste poche instabili e brevi dimore terrene / disperdendo la storia della mia vita / in un soffio caritatevole di Dio.”
Sembra che il poeta voglia supplire alla deficienza di un mondo imperfetto e inadeguato con un ardito atto di volontà e di fede. L’amore per Dio, per la sua essenza infinita e soprannaturale non risolve i contrasti che ci escoriano il cammino, ma predispone un deltaplano di salvezza, rimuove i limiti dello spazio e del tempo, fa fermentare un metabolico processo di riscatto adibito a sprone per nuovi inaffondabili cimenti. Il merito di questo lavoro risiede nell’energia con cui scardina la trama delle labili apparenze fornendo un’ideologia e un’arte all’arbitrio dell’accadere, agganciando il quotidiano all’asta di un soccorso che solleva, abbraccia e redime. Un’opera che non si chiude nell’autoreferenzialità di un diario intimo, ma attraverso una scelta lessicale espressionista, evocativa e minuziosa, infonde linfa ai pensieri, ci riconduce alla natalità del cosmo collocato in una luminosa fenditura, quella che origina e spande un raggio di speranza. Scrivere per il poeta non è un semplice intrattenimento, ma una funzione carica di responsabilità, è un modo privilegiato per cogliere i segnali di quel quid che sappia immetterci sul sentiero di una qualche verità. Un osservare che punta a reperire una via d’uscita dall’impasse, che in una consapevole e cristallina pregnanza semantica registra e denuncia la friabile e transitoria pretesa dell’esistere. Alla poesia viene annesso un valore conoscitivo radicale, risarcire il caduco, fiutare un “al di là” che ci affranchi dal pericolo, dall’instabilità e dall’insignificanza, che allestisca un parapetto di pace, un terrapieno di grazia contro il buio.

Un pensiero su ““Il lato basso del quadrato” di Giuseppe Vetromile

  1. Sono davvero grato a Monia Gaita per questa recensione approfondita e del tutto aderente al mio pensiero poetico che ho cercato di sviluppare in questa ultima raccolta. La ringrazio per la sua grande esperienza, competenza e acume critico con i quali mette in risalto i punti principali del mio percorso, e per avermi dedicato parte del suo tempo prezioso. Monia Gaita è una eccellente poetessa, nota in ambito nazionale, ma è anche un critico letterario di prim’ordine ed io sono onorato della sua attenzione!
    Pino Vetromile

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