di Davide Rondoni
su Il grande innocente, di Gabriel Del Sarto, Nino Aragno Editore
L'esergo di un poeta meno conosciuto di quanto si dovrebbe in Italia, sigilla il senso del lavoro di questo libro di Del Sarto, poeta che da anni conduce una sua ricerca da ciclista passista, poco incline ad assecondare i piccoli canoni vigenti, gli scatti di ciò che diviene rinomato. Geoffrey Hill scrive: "Amo il mio lavoro e i miei bambini. Dio / è distante, difficile. Le cose accadono".
Il libro che Aragno, grande amante della poesia e della cultura, ha pubblicato al bravo poeta toscano (ma di quella toscana aspra, anarchica, opposta alla potente e fiorente appunto fiorentina, quella di Massa, greve e tosta, delle montagne spaccate, non quella delle leggiadre colline di sfondo a Botticelli), Il grande innocente, è abitato da quella freddezza asseverativa, come nell'esergo di Hill, freddezza intendo come quella che Baudelaire indicava come sua caratteristica, parlando dei suoi Fiori del male. Nulla, insomma, di facilmente sentimentale, nulla di retorica poetica novecentesca (salvo quella della lingua media sereniana, passibile pur essa di falso rinnovamento retorico), nulla di quelle frappe poetiche anni '50-70 che ogni tanto compaiono a ricordarci che "cappero, ma questo sa scrivere, fa pure i giochi di parole...". La freddezza in poesia è una qualità della precisione dello sguardo. La poesia deve muovere e commuovere non gli occhi lacrimosi del poeta. È una innocenza, non un melodramma, quel che il poeta cerca, come diceva Ungaretti. Del Sarto è generoso e al tempo stesso quasi restio nel dare questa sua mappa del tempo inquieta di una febbre interiore, di incertezze che diventano sensibilità accesi. Un libro di luoghi e gesti sospesi. Gesti che hanno la stessa materia di possibilità e destino, sia che si tratti di una caffè alla macchinetta in ufficio, di uno sguardo ai registri contabili nel pc, o lo sparo assassino sul nonno partigiano, i suoi occhi al cielo o l'unico sguardo da quell'uomo dato al figlio prima di morire, o ancora mille gesti sorpresi dal suo radar negli ambienti di lavoro, le rare ma decisive incursioni in territori domestici, in quell'ambiente particolarmente delsartesco che è il tempo doppio e multiplo. Ovvero il tempo degli avi, e dei libri sacri e non, e il proprio, visitato per carotaggi, smontaggi, rifrazioni che rendono, appunto, il tempo per il poeta una eliotiana compresenza.
In questo lavoro meticoloso, appassionato e freddo Gabriel, io poetico anch'esso rifratto in nomi di avi e arcangeli, convoca sulle pagine della sua poesia un mondo del lavoro, spesso abitato dal non detto e sotto questo aspetto mondo metafora del mondo (come avviene appunto in Sereni, ma anche più recentemente in poeti della medesima generazione come Riccardi, Franzini, Olivieri, Benigni e anche Mencarelli...).
Nella parte dedicata più esplicitamente alla imminenza sfuggente del destino nella storia, nel rivivere vicende familiari legate alla lotta partigiana, con la figura del grande innocente che prende un corpo e un nome, Del Sarto raggiunge, come nella parte dedicata alla paternità, qualcosa di speciale - un versificare vivido, un taglio di scorci di violenta bellezza, una inchiesta radicale. Regalandoci così un libro denso e senza enfasi, abitato da ombre e da lampi, intorno al problema più grande: la verità del tempo. A questa scena assiste un Dio che appare "distante e difficile", biblico forse più che segnato dalla umanità patiens e risorgente di Cristo. Ma un cielo a cui alzare gli occhi sempre, mentre molte cose ci tirano giù lo sguardo, il cuore, le attese. E la stessa refrattarietà della poesia a dire il vivente, il suo insuccesso e incanto, trovano, ancora una volta in modo persuasivo, il modo di adempiere il proprio compito. "Dire dove siamo", come scriveva il mai dimenticato Antonio Santori.