Il capodoglio – Racconto

di Angelica Grivèl Serra

In una mattina gloriosa di un azzurro d’acciaio di fine agosto del 1965, esondò anche il giovane Ignazio Gancitano dalla nave traghetto approdata da Palermo al porto di Cagliari, da cinque mesi dottore in biologia e acceso dal fervore della certezza di acquisire una cattedra di Matematica e Scienze in una scuola media dell’isola. Il mestiere lo condusse in Ogliastra, in un borgo di montagna imbellettato da ghirlande di vitigni, ma rimase lì appena cinque anni, perché quella in Sardegna fu per lui una digressione di plateale infelicità, soprattutto per la storia del capodoglio. Fatto che sommamente determinò la fuga definitiva di Ignazio alla ricerca di una vita diversa. Il che coincise con un ritorno in Sicilia, sua terra natia, dalla quale infine si sarebbe risolto a non uscire mai più.

Qualche anno prima del suo arrivo, in una giornata estiva qualunque, un gruppo di bagnanti s’imbatté nell’imprevisto: un’immensa creatura color asfalto, proprio lì, riversa sulla distesa chiara della spiaggia che distava mezz’ora di curve dal paese. Era un povero cucciolo di capodoglio dalla coda mozza, tranciata forse dall'elica di chissà quale nave. Una volta vinte le circospezioni e appurato che l’immobilità della creatura fosse dovuta a inequivocabile morte, circondata com’era dalle vibrazioni ronzanti di un’aura di mosche ordinarie e di sgargianti mosconi smeraldini, si avvicinarono, sfiorando il cetaceo: chi con un osso di seppia rimediato sul bagnasciuga, alcuni col favore di un bastoncino e certi, più audaci, con la punta delle ciabatte da mare. Uno di loro, un uomo corpacciuto del borgo ogliastrino, si offrì di caricare il balenotto di oltre tre metri sul suo furgone, che sarebbe stato certamente capace di contenerne la stazza, accomodandolo sul cassone come una lumaca gigante avvoltolata.

Si fece aiutare da altri quattro volenterosi, reprimendo l’esplicito ribrezzo al tatto con la viscida carcassa. Tornò in paese, con un presagio di trionfo in vista delle reazioni che avrebbe raccolto la straordinarietà della cosa. E andò davvero come lui aveva previsto: mentre transitava per la via principale col suo Leoncino rosso, il gigante, con lo sciame di insetti festanti a seguirlo in devota processione, attirò immediatamente le esclamazioni di tutti, e di voce in voce un capannello attorniò le spoglie della bestia. C’era chi compiangeva la sorte del capodoglio, così pateticamente deposto sull’autocarro. Alcuni rimuginavano su come fosse arrivato lì, ma a prevalere era la concitazione degli strilletti acuti delle dozzine di ragazzini che si muovevano in una calca caotica, mentre sezionavano con piglio di scienziati in erba il grasso dell’animale. Fu stabilito di sotterrare il capodoglio in una zona circostante il paese, ma lontana quel che bastava per dissipare le curiosità e scoraggiare qualsiasi tentativo d’incursioni esplorative non autorizzate. Il fatto fu riposto negli archivi della memoria collettiva del paese.

Era il quinto anno d’insegnamento per Ignazio quando, nel borgo, il Comune decise di costruire un impianto sportivo. La zona designata per concretizzare il progetto fu l’ampio spiazzo che aveva agito da cimitero per il leggendario capodoglio, e le operazioni di scavo ne riesumarono i resti: il cantiere svelò i denti conici e il cranio immenso.

Fu allora che giunse l’idea. Ignazio Gancitano era in paese da tempo sufficiente perché le persone avessero consolidato un pensiero comune: c’era qualcosa, in lui, che suggeriva un innegabile senso di sconfitta. Forse era la sua schiena sempre china a rimpicciolirgli l’altezza, che altrimenti sarebbe stata piuttosto imponente. Magari era l'impressione che le spalle in alto, perennemente rattrappite, gli annullassero la presenza del collo. O era solo il fatto che, quando leggeva l’appello, declamasse i vari “Contu”, “Melis”, “Usai”, “Locci” incollando così tanto il viso sul registro che il naso sfiorava la pagina, fomentando istantaneamente diffusi sogghigni che si estendevano a catena in tutta la classe. Comunque, qualche buontempone nel cantiere pensò che sarebbe stato divertente approfittare delle vulnerabilità del docente di scienze. Così, prima di disfarsi dello scheletro della bestia, approntarono lo scherzo. Con la complicità del segretario comunale, le maestranze fecero perimetrare l’area assecondando minuziosamente i crismi di un perfetto scavo archeologico, mimandone persino le cautele. Poi, un lunedì mattina, il beffardo geometra del Comune si recò personalmente a scuola per convocare Ignazio, col pretesto ufficiale di un ritrovamento miracoloso che il professore avrebbe dovuto indagare. E lui, del tutto ignaro della leggenda del capodoglio, accorse. Non appena il suo sguardo scrutò gli ossi accomodati a mo’ di fossili, sparsi così nelle zolle di terra smossa, l’esaltazione della scoperta attizzò in lui l’impulso di un irrefrenabile entusiasmo. Cominciò a camminare avanti e indietro attorno alle recinzioni, la foga ad accelerargli il passo e, oscillando alternativamente occhiate tra gli scavi e il responsabile dei lavori nel cantiere, Ignazio si profuse in esclamativi convulsi, come “Ma dobbiamo studiarlo” o “Bisogna avvisare la Soprintendenza per il patrimonio archeologico!” e “Questo deve essere un esemplare rarissimo!” o ancora “Potrebbe essere roba millenaria!”

Riuscirono a gestire i tempi dello scherno per un po’, trattenendo accessi di risatine ad altezza degli occhi o simulando la discrezione di colpi di tosse sino a quando il segretario comunale, che presenziò alla burla, fu incoraggiato da un senso di subitanea pietà per Ignazio e si premurò di annientare le sue visioni epiche, svelando in fretta al professore deriso tutta la storia, come se parlando velocemente potesse rendergli meno spiacevole accettare la faccenda. Per un attimo, ogni sogno che aveva animato le fantasie di Ignazio si spense: il suo volto si afflosciò come una gomma forata e il sorriso si attenuò di colpo. Ma lui riuscì ad assestare quasi subito l’orrendo disappunto che gli aveva ghiacciato il cuore, alla volta di un’ilarità complice, a dimostrare di aver accolto benevolmente lo scherzo. Da allora in poi, però, Ignazio si sigillò nel chiostro di un’amarezza che estendeva in cortesie sommesse quando si trovava costretto ad affrontare la socialità: ai colloqui, ai Consigli di classe, persino con i suoi studenti.

Lasciò che terminasse l’anno scolastico, e in luglio era già a Trapani. Ma giammai dismise l'amore per il suo mestiere: continuò a insegnare e instradò la sua vita sui percorsi di una pacata ordinarietà, alla quale seppe affezionarsi sempre più, cullando sé stesso nella quiete.

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