Le stelle che non si vedono. Il canto americano di Pietro Federico

di Davide Rondoni

Pietro Federico, La maggioranza delle stelle. Canto americano, Ensemble 2020

Pietro Federico è uno dei poeti più interessanti tra i quarantenni italiani. Già ne scrissi su clanDestino e seguo il suo lavoro dagli inizi. Con questo "La maggioranza delle stelle. Canto americano" salutato con favore da autori come Pontiggia, Conte, Damiani con prefazione e strilli in copertina delle edizioni Ensemble, tenta la via della poesia epica. La cosa non è ovviamente "nuova", come forse un po' facilmente sostengono Conte e Pontiggia, pensando alla recente poesia italiana che senza risalire al Bertolucci della "Camera da letto" o a quel "Diario americano" di Bigongiari del 1987, ha dato negli ultimi vent’anni non pochi segni di riscoperta della dimensione epica della poesia, da “L'Angel” di Loi al poema di Mussapi “Antartide”, e ad altre prove lirico-epiche come quelle di poeti più giovani come Federico Italiano o anche Valentino Fossati, Stelvio Di Spigno, Davide Romagnoli e altri. Del resto, già il meraviglioso "Poeta in New York" di Federico García Lorca segna una sorta di libro matrice delle sollecitazioni epiche che dagli Usa arrivano oltreoceano. Il valore del libro di Pietro Federico sta dunque forse in quel che spero "ironicamente" Pontiggia dice nella ultima frase della sua partecipe introduzione: "E anche se qualcuno sarà tentato dal trarne indizi di qualcos'altro, il lettore intenderà subito che la maggioranza delle stelle, è soltanto, inevitabilmente un libro di poesia". Perché infatti il pregio di questo libro – che coincide anche con il suo possibile difetto, come accade agli artisti bravi la cui bravura può esser rischiosa – sta appunto nella sua smodata fame, nella sua incontentabilità. Nella sua razza di libertà che non è innanzitutto di tipo stilistico o poetico ma umano e esistenziale. La maggioranza delle stelle sono quelle che non vediamo, dice uno dei tanti personaggi che affollano questo viaggio di racconti visionario e ferito. La folla di personaggi, di fatti piccoli e grandi (tempeste o riflessi, puttane e predicatori, zombie umani e amori, schiavi e ingegneri) sono gli avamposti dell'invisibile che occupa e affama anime intente a vivere "l'inverno del nostro scontento" in una lettura "spostata" del mondo americano che ci riguarda e però anche ci inquieta come uno specchio. Non è solo un libro di poesia, per fortuna, almeno di poesia come si intende oggi indicando con questo nome qualcosa di autosufficiente, di idolatrico quasi, di massaggio psicologico. Già dal sottotitolo la parola "canto" avvisa una intenzione che cercherà di sostenere non tanto lo stile ma la natura della materia presa in esame, sporca e viva, ovvero la indica come meritevole in quanto tale di canto. Questo testo, ricco di versi molto belli, di descrizioni e momenti narrativi che potrebbero star meglio in prosa (forse un'alternanza tra versi e prosa sarebbe stata sfida stilistica più ardita) è un autoritratto grondante di mondo, che inizia in un viaggio e termina in un epistolario amicale, e che ci costringe ad allargare e focalizzare lo sguardo, a fare i conti con i morsi del senso del sacro e con la colpa in un cuore vivo e ferito, con gli stupori del bene e le ossessioni di una vita che vede se stessa prendere forma e inquietudini definitive. Un libro di filosofia della storia e di estetica del territorio e del sacro, un libro di soccorso e di pericolo. Un libro dunque dove l'autore scommette di essere un autore nel senso più largo e pensoso del termine. Ne consiglio dunque la lettura a chi cerca non solo un libro di poesia.

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