di Davide Rondoni
A proposito di un numero di Italian Poetry Rewiev e del perché la vita della poesia non è chiacchiera su Facebook
La vita della poesia è come un bar. C’è posto per tutti e per fortuna nessuno sta all’entrata a fare il buttafuori. Chi ha provato a farlo, tipo certi neoavanguardisti, ha rimediato brutte figure, saltato a piè pari da ragazzetti svegli e vecchi apparentemente rincoglioniti e invece ben più forti delle poetiche da politburo. Ovviamente come in ogni bar c’è casino, ci possono essere vari tipi di persone e diversi tavoli. Ecco, c’è casino e però uno può decidere a che tavolo sedersi. Vedo che il tavolo dove si scambiano chiacchiere su Facebook e dove alcuni pensano di fare la vita della poesia con pezzulli striminziti e senza sugo, a volte pure senza rispetto e senza traccia di studio, spesso è affollato. Certo i social sono una meraviglia. E soprattutto sono gratis (o meglio servono per spiare e avere i tuoi dati e in cambio ti fanno cazzeggiare a gratis). Che un poeta pensi di creare alcunché di significativo cazzeggiando o pontificando sui social denuncia solo la pochezza della sua profondità e statura. E se ci perde troppo tempo sopra il segno è ancora più grave. E non per questione morale (non sono il tipo) ma estetica e di “costo” delle parole. Non dico di non usare lo strumento meraviglioso e gratuito per scambiare notizie, o qualche suggerimento o qualche spunto di idea. O per condividere la notizia di opere (libri o anche musica o video frutto di buon lavoro). Ma pensare di far dibattiti, o critica (o peggio processi) sui social intorno alla poesia è da dementi, da gente appunto che sta al bar e pensa che versarsi un crodino o un mojto sia bere alla grande. Meglio scegliere altri tavoli. Magari meno rumorosi, meno apparentemente vivaci (occhio a misurare la vivacità in post). In uno di questi tavoli ad esempio stanno Paolo Valesio e quelli che con lui fanno la Italian Poetry Review, come Alessandro Polcri e Steve Baker. Il tomo che riunisce le annualità 2015/2016 ho finito di leggerlo ora. Al bar a volte occorre darsi tempo, fare conversazioni lente. Ne ho tratto molte cose interessanti. Dal bellissimo e denso intervento di Lorenzo Chiuchiù, poeta e studioso radicale, su Paul Celan e il suo rapporto con Assisi e Francesco, agli omaggi a più voci a Luciano Rebay, anima della italianistica newyorkese, inventore della Cattedra Ungaretti preso NYU – retta dallo stesso Valesio per alcuni anni – e a Plinio Acquabona. E poi alcuni testi interessanti, oltre a quelli di Massimo Morasso, di Mariagiorgia Ulbar, Matteo Zattoni, Diego Bertelli e di Costanza di Francesco Maesa, vincitrice del premio Alinari. Lavoro poderoso il volume, introdotto e per così dire sostenuto dal testo editoriale di Paolo Valesio. Testo di grande spessore e urgenza in cui si affronta il tema attuale della libertà di espressione per così dire “rivoltandolo contro” una certa pigrizia intellettuale dei poeti di oggi a sfuggire ai dettami del pensiero dominante, del politically correct. Valesio ha coraggio, si espone, il suo testo, intitolato “Utopie” è per chi è disposto a pensare e non solo a stare al bar a cazzeggiare, ed è gravido di questioni tutt’altro che pacificanti.
Ne consiglio la lettura a chi nel bar dei poeti vuole trovare ogni tanto tavoli con conversazioni succose e non solo pettegolezzi editoriali, piccoli risentimenti, ansie ridicole di riconoscimento e narcisismi che ci affliggono tutti – ma a cui tutti dovremmo almeno dare il nome giusto. Per chi insomma è interessato alla vita reale della poesia e non alle paturnie dei suoi più piccoli protagonisti.