di Roberto Di Pietro
Elena Bono, Chiudere gli occhi e guardare. Cento poesie per cento anni, Edizioni Ares 2021
L’abilità di attraversare controcorrente l’intera produzione letteraria della seconda metà del Novecento e dei primi anni del Duemila è una delle caratteristiche che più colpiscono dell’opera e, in particolare della poesia, di Elena Bono (1921-2014). La maggior parte della lirica europea, infatti, proseguendo nel XX secolo nel segno di Baudelaire («C’è una certa gloria nel non essere compresi»), parla per enigmi e oscurità, privando la realtà di ogni riferimento oggettivo per trasfigurarla. Tutto si deforma, sgretolandosi: dai rapporti tra l’alto e il basso a quelli tra senso e pensiero, lingua e sintassi, fino a che, pian piano, il significante finisce per non rimandare più al suo specifico significato. Il poeta, come dice Pessoa, è fingitore per antonomasia, crea cioè mondi e sistemi di pensiero che sovrascrivono quello reale, ruotando intorno a un tempo che non è quello effettivo, storico, ma che corrisponde a un metro interiore, soggettivo. La realtà si fa enigmatica e indecifrabile, orfana di causalità, la conoscenza parzialmente possibile e vano è persino ogni tentativo di perseguirla, tanto che Montale arriva a dire: «Nessuno scriverebbe versi se il problema della poesia fosse quello di farsi capire».
Sostenuta da una voce originale che ne accompagna ed esalta i molteplici talenti (scrittrice, poetessa, drammaturga), la poetica di Elena Bono si costruisce nel tempo attraverso lo studio (grazie al padre, grecista e latinista) dei classici e dei miti, l’interesse per le filosofie orientali, l’esperienza – fondamentale – della resistenza partigiana e, naturalmente, la fede. Temi, questi, tra i principali della sua opera e qui addensati in un significativo passaggio di Ai compagni che combatterono per la libertà: «Sola vergogna è non aver cercato / la libertà / e vivere contenti di sé / non esistendo» (da Chiudere gli occhi e guardare, premessa di Nicola Bultrini, a cura di Stefania Segatori, Francesco Marchitti e Silvia Guidi, Edizioni Ares, 2021). La sua «nuda voce», dunque, non è mai artificiale; la parola nei componimenti dell’autrice di Morte di Adamo (raccolta di racconti che nel 1956 segna il suo esordio con Garzanti) non ha bisogno di fingersi creatrice di realtà alternative. Per lei la poesia non è matrice di induzione o riprogrammazione ideologiche, non ci sono teorie, visioni, sistemi da dimostrare o da mettere a punto. Al contrario, essa scandisce, analizza e rivela ciò che esiste grazie alla consapevolezza che ogni cosa è già stata creata da Dio («tutto è per sempre)» e che ciò di cui l’uomo ha bisogno è, semmai, un mezzo per mettersi in cerca e interrogarsi, per (ri)trovarsi e tornare a costruire: «Finite di piangere su di voi e sopra i morti. / Finite di ballare sulle tombe. / Non vi accorgete / che a noi è richiesto più che ai figli di ogni altro tempo?» (Tempo di Dio).
Più che genitrice, la parola è per Elena Bono – francescanamente – sorella dell’uomo. Come fratelli e sorelle sono – fedele a una tradizione più romantica che strizza l’occhio a Foscolo, Keats e Leopardi – gli astri, il mare, il cielo. Fin dalla prima lettura, ciò che colpisce di questi versi è la loro misura, la compostezza e la trasparenza (di qui l’opposizione con l’oscurità della lirica moderna), la rara compiutezza; essi parlano la lingua del lettore e per questo riescono a scuoterne nel profondo l’esistenza, invitandolo – incitandolo, anzi – a vivere perché vivere è più poetico di qualsiasi altra azione: «e nessuno comprende / che non è il morire / la virtù degli eroi / ma restare tra noi / quanto vien loro comandato. / Vivere umanamente tra gli umani, soffrirne tutte le pene / più una: / nostalgia / nostalgia di Dio» (I dioscuri del Quirinale). Nei componimenti di Elena Bono la fede è certamente testimonianza e fonte d’ispirazione (riprendendo un’immagine dantesca, lei stessa amava definirsi come una amanuense che scriveva sotto dettatura) non impermeabile al dubbio: «E forse tu non l’hai riconosciuto, / tu hai sempre ignorato / quale armonia avvinca morbidamente le note / che vagano dentro di te disperse. / Forse sei tu quel canto / la tua vita è il desiderio che ti distrugge; forse morire è questo: ricantare un canto dimenticato» (Solitudine).
A leggere, o a rileggere, Elena Bono oggi, quella sua indole centrifuga rispetto all’industria del complimento (per dirla con Giuseppe Bonura) e alle correnti in voga (dall’ermetismo allo sperimentalismo) è meno evidente e, anzi, molti dei suoi temi (e dei suoi modi) sono rintracciabili in alcune delle sillogi più fortunate dei nostri giorni. Se non proprio religiose, certo spirituali, che non pervertono né manipolano la parola, che accolgono e accompagnano il lettore in un cammino comune, che lo mettono in connessione con la natura e con l’ambiente. Una poesia in cui l’Io si stempera nel “noi”, che accoglie – finalmente – senza più respingimenti: «Luna luna non piangere perché sei sola. Il cuore più solitario di tutti / a tutti appartiene» (Conforto).