di Antonietta Gnerre
Leggendo I quattro tremori del giardino, titolo italiano del libro di Jean Portante (tradotto da Camilla Diez e Francesco Fava), si ha la sensazione di ascoltare un’eco ricca di slanci interiori e esteriori. Un canto che ricostruisce, ancorato tra memoria e materia, un nuovo tempo.
La raccolta, edita dalla casa editrice La Vita felice, si concentra su un tema ben preciso, quello del sisma che il sei aprile del 2009 colpì l’Abruzzo (con epicentro il capoluogo de L’Aquila). Nel breve saggio introduttivo intitolato Timori e Tremori, Valerio Magrelli fissa le coordinate del libro quando afferma: “Tremando la terra ha devastato le sue origini”. Origini che hanno radici ben radicate in un territorio che ha assorbito dolore e perdite.
La poesia di Portante, dunque, indaga la natura umana, la sua transitorietà e il destino fatale di ogni uomo, come tappa interiore dei quattro giardini che fioriscono malgrado le macerie. Di conseguenza in questo libro, diviso in quattro sezioni, ciò che accomuna è quel forte radicamento che porta a galla quel desiderio di appartenere a una terra.
Nella prima sezione ogni lirica è racchiusa e legata dall’espressione “A volte”. Da una parte, quindi, il tempo non è incasellabile, dall’altra è una parte invariabile racchiusa entro un margine di silenzio incandescente: “ io mi dicevo a volte ma non ne sono sicuro/ che tutto quel che potrei ricordarmi è retto/ dal mistero del seppellimento.” Perché dopo un sisma viene a frapporsi tra l’Io e le cose, tra l’Io e la scrittura la vertigine di un mutamento. Scrive il poeta: “La memoria ha tremato, e ancora ignoro a cosa assomiglierà la mia scrittura dopo il terremoto. In ogni caso un ciclo si è concluso. Mi avvicino, lo sento alla scrittura fantasma”. Il richiamo luttuoso, qui, è incisivo. Perché un terremoto resta impresso per sempre, dividendo ciò che c’era prima da ciò che non ci sarà mai più. Perché la morte è dentro la vita.
Nella seconda parte, invece, predominante appare il verbo vedere, con un ritmo che incalza ferite e rinascite. Leggiamo qualche incipit insieme: Quel che non si vedeva era l’attesa, Come non vedere tra l’albero lontano, Vedevo bene che strappavano tutto/ intorno a me…e così via. La forza del messaggio di Portante, dunque sta nella parola che mima il ritmo del tempo, il dentro dell’anima umana. Da ciò, da questa potenzialità infinita, deriva la forza di produrre la vertigine del dolore: “Vengono fatte sposare anche le grida e l’aria/ la luna diventa l’amante del lago”.
La poesia di Portante, nella terza sezione, svela una sacralità nel leggere ogni residuo del passato, ogni dettaglio, come una sorta di “reliquia” dotata delle stesse virtù dell’intero “oggetto” di cui reca testimonianza.
La struttura poetica cambia totalmente registro. La poesia si assottiglia, diventa breve, ispirata alle composizioni giapponesi dei tanka che, a differenza dello haiku, possiede un principio di narrativa. Lo si avverte ad esempio in questo componimento dove il richiamo di Portante alle sue origini è esplicito:
Nell’album del Nord
si asciuga un Sud appena raccolto
già asciutte le sue spalle
le spalle voltate quando piove
partire è un giorno di pioggia.
Nella sezione che chiude il libro, la parola si rigenera, la realtà al di là di ogni attesa diventa assoluta novità. L’ispirazione visionaria, con una incomparabile miscela, partecipa e riscrive il paesaggio con una luminosità nuova. Le emozioni arrivano sulla pelle in ogni momento. In questa parte finale il poeta si assume il compito di guardare l’altissimo silenzio, di farsi sua voce: “anche il giorno sta lì / col suo pennello insolente.”
Un libro, questo di Portante, che si racconta. Che racconta le sventure e le meraviglie della natura, da invidiabili giardini che attendono la primavera della storia.
Grazie Antonietta Gnerre per la profonda acuta recensione di questo libro pieno di poesia sulle fondamenta della nostra memoria franata disseppellita ,un libro per non dimenticare la frialibilita dei nostri giorni .
Brava brava…perfetta come sempre