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I barlumi del canto. Sei poesie di Gaia Boni

Introduzione di Davide Rondoni

 
Come sempre accade in una voce di talento, c'è qualcosa di comune e di non comune nella poesia di Gaia Boni. Un'appartenenza a una koiné di scrittura diffusa e condivisa, caratterizzata da nitore, cadenze a bassa temperatura ritmica, versificazione non fissa ma "ordinata" e una certa propensione per il diario e qualche escursione verso generi di lessico tra il sapienziale e il sacrale. Ma in Gaia Boni queste caratteristiche che vediamo diffuse in tanta buona poesia (dalla Gualtieri alla Mancinelli, dalla Leardini alla Mussoni) sono per così dire "inquietate" dalla presenza di metafore, quasi voli di taglio, aperture che accennano al canto o forse sua memoria. E qui si innerva a mio avviso una delle risorse più ricche di futuro per la voce di Gaia Boni. Come sottolineava Ungaretti, lettore di Leopardi che Canti intitolò il suo libro di poesie, il canto è natura profonda della poesia italiana, radicata in Jacopone, Dante, Petrarca e dunque sempre rinnovabile. Dove per "canto" non si intende certo la facile cantabilità banale di poesie filastrocchesche e ingenuotte, ma la profondità sorgiva da cui la parola può e deve slanciarsi per "uscire" dal discorso corrente e trascinare con sè le profondita del magone, dello strazio ove ci sia, o dell'incantamento.
Il futuro di Gaia Boni per me passa da questo più deciso e sofferto acquisto di canto, insoddisfatto di ogni soluzione semplice non all'altezza della vita ("cantami qualcosa pari alla vita", diceva Mario Luzi) e al tempo stesso allergica a ogni riduzione mentale e accademica della voce poetica. E come sanno i poeti autentici alla sua natura di canto la poesia italiana non arriva innanzitutto per acribia di lavoro al tavolino o per sforzo libresco, bensì per un continuo lavoro del cuore, nelle ombre e negli stupori del mondo. Gaia può farlo.

Con gli occhi curvi sono venuta da te
un po’ per celia un po’ per salvezza
ma nemmeno la testa poggiava bene sulle giornate
diritte e rigide come questa pianura
dalle gambe troppo lunghe
-avevo bisogno di uno spazio, una buca
che non mi obbligasse all’equilibrio della gru
e tu hai saputo tendere i miei occhi curvi
scoccare via quei pesi ai lati
sciogliere il piombo e forgiarne un monito,
grazie a te mantengo i miei occhi tristi
fendendo il cielo aperto
con lo sguardo indocile dell’airone in volo.

Ti piace nascondere il cuore
amore mio, amore ultimo
dopo mesi senza la tua divina magrezza
ancora ripenso a quanto mancavi
in quella stanza scottata a quattro mani
-io mi ero ustionata la schiena, ti ricordi?-
al momento in cui dal pianto
ho appannato il cielo
-vedi come si fa a non dimenticarsi di un tramonto?
amore mio, amore ultimo.

Non sai come guardarmi
-mai
il mio leggero strabismo
che voi tutti dite di Venere
lo porto come trono di finissima ceramica
sulle spalle cieche, sui piedi e le dita dolenti
e tu pensi di farmi accomodare
con veemenza pure
non ti accorgi del tuo passo gigantesco
il sussultare della terra
la perdita d'equilibrio
direttamente proporzionale alla tua vicinanza.

Sono giorni e notti che giro e mi rigiro
nella stanza e nel letto che mi accoglie
stanco del mio peso
ma per quante giravolte da vomitare persino il mio nome
quando mi fermerò saprò riconoscere il sentiero
su ogni albero mi sono arrampicata
ho conosciuto ogni fronda cullarsi tra il canto oscuro delle civette
-come cervo seguo i passi dei miei predecessori
le mie vecchie corse
e dalla terra battuta correndo sono pronta a battermi.

Vorrei che non la ascoltaste,
presa com'è a sollevare il buio sotto i suoi tappeti
ne scopre un po' e s'innalza un terrore atavico
-dovreste confidarvi alla polvere
e agli alberi che non chiedono mai-
vorrebbe spiegarvi lei, della sua verticalità personale
verso qualcosa di più ingoiando le vertigini
mordersi le guance a sangue,
provate a salvarla anche se non vuole
-salvatela.

Non mi importa di saper contare la tua imprevedibilità
mentre alle radici di una siepe ci si lecca le ferite
scambiandoci i sapori, il sole alacre
ci indorerà i soliloqui d'unica tinta
se è questo che vogliamo
se è questo che vorremmo
-non mi importa se hai quasi vent'anni
forse per la prima volta
ho vent'anni anch'io.

Gaia Boni nasce il cinque gennaio a Feltre, ma ha sempre vissuto tra Fiera di Primiero, in Trentino e Ricengo. Ha frequentato il Liceo artistico "B. Munari" di Crema. Attualmente frequenta l’Accademia Carrara di Belle Arti di Bergamo. La sua prima pubblicazione avviene nel 2014 nella silloge di autori vari Libro Blu (Il Federiciano, Aletti Editore), segue Amaranto (Il Federiciano, Aletti Editore, 2015). Partecipa e vince all’XVIII edizione del concorso Invito alla Poesia (Poesia e Solidarietà, 2015). Pubblica nel 2017 una propria poesia, insieme ad altri autori, nella silloge Umana troppo umana, Poesie per Marilyn Monroe (Nino Aragno Editore). Nel marzo 2018 vince il terzo premio e il premio della Giuria web, nel concorso Infinito, indetto dall’Accademia Mondiale della Poesia.

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