I “Bagliori planetari” di Dante Marianacci

di Daniele Cavicchia

Dante Marianacci, Bagliori planetari, Aragno Editore, (giugno 2022) pag. 326 Euro 15

Poeta, romanziere, saggista, Dante Marianacci, si ripropone con un altro libro di poesie, in realtà, un corposo poema, per lunghi tratti esemplare, che dopo “Un viaggio con Tiresia”, “Sconfinamenti”, e “I ritorni di Odysseus”, seguendo l’invisibile Filo di Arianna, tenta di uscire dal labirinto dei ricordi per ricomporli. La prima cosa a cui si pensa, leggendo le prime pagine del poema “Bagliori planetari” è a “Il canto della terra di Gustav Mahler”. La sinfonia nasce in musica, dopo la morte della figlia del compositore, dopo aver letto liriche di poeti cinesi della dinastia Tang del VIII secolo d.C. tradotte in tedesco da Hans Bethge e si sviluppa in sei movimenti: “Il brindisi del dolore della terra”, “Il solitario nell’autunno”, “Della giovinezza”, “Della bellezza”, “L’ubriaco in primavera”, “L’addio”.

Quindi, tutto ha inizio da un lutto; non è il caso di Marianacci, ma i ricordi, non sono un lutto? E le parole dette, non lo sono anch’esse? Se così fosse, diventa necessario riscrivere per far rivivere. Ancora Ulisse, perché se è vero che tutto è stato fatto e scritto, è altrettanto vero che ogni uomo ha una propria storia che diventa solo sua. Marianacci, si presenta in questo libro come un “rabdomante a ritroso”, ospite nelle pagine del Poema che, dopo aver trovato l’acqua, ne ricerca la sorgente. Difficile ricerca se la memoria non li protegge: allora diventa necessario riscrivere emozioni, letture, sguardi, perché il tutto non diventi oblio. Quindi, ricostruire un mosaico. Ma è, soprattutto, una lunga dichiarazione d’amore verso “la compagna di vita e unico amore” che pone domande; alcune chiedono, altre si pongono come risposte. È poi vero che le domande vengono da Lei, oppure è il poeta a porsele inventandosi una lei? Il poeta sa che l’amore, dopo lo stordimento del primo momento irrazionale, stabilisce regole non scritte e forse non percepite da un lui guidato da Eros che distrae verso le forme della donna che non saziano mai. Il poeta è sempre un esteta che non resiste alla bellezza. Ma la donna ha un’altra lingua in amore, nonostante l’amore e, per certi versi, sa che a lei è dovuto per i suoi silenzi, per le sue attese, per la sua operosità e, soprattutto, perché crea generando, mentre a lui l’amore è concesso come dono. Penelope aspetta, Ulisse ritorna. E quindi, necessita colmare questo equivoco ridichiarandosi.

Tutto il poema è permeato da domande e risposte quasi disperate, scrupolose, lunghe e a volte contradditorie.

“Perché certi giorni non dovrebbero mai terminare/ e altri durare solo il tempo di uno sguardo”. “È dentro che accade e si manifesta l’inesprimibile”. “Abito ormai solo i luoghi/ del desiderio e della mancanza”. “Un velario di sogni inquieti e irriverenti”. “La maschera della gioia, mi dicesti,/ ha preso finalmente il sopravvento”. “Sono certo che il tempo/ si vendicherà di tanta bellezza”. “Qui sembra che un altro iddio/ abbia generato e poi devastato”. “Lo sai. Io scrivo perché tu possa/ continuare ad esister”. “A volte m’appari come la rancorosa Clitennestra/ e la sciagurata, seppur bellissima, Cassandr”. “Allude, lascia trapelare, lascia indovinare/ e poi ride felice della sua verità non rivelata”. “Voglio riprendermi tutti i sogni/ che ti ho dato in prestito./ La parola non detta ha più voce”. “E il mondo è una menzogna/ che ogni giorno si ripete disuguale”. “Non c’è più storia nel mio dire”. “Noi siamo rami delle nostre piante/ ci sussurriamo bisbigliando”. “Tu intanto danzi dentro un petalo di rosa./ Ché il passato è già nell’avvenire che ci attende”. “Sono stanco di pentirmi”.

Sono solo alcuni esempi di come è stato ricostruito il poema, indizi e inviti, dubbi e certezze, amore e stanchezza, partenze e ritorni. Vengono in aiuto miti, filosofi, dei, astronomia, biologia, poesia, e Mariannacci, che ha dedicato la propria vita alla cultura, sa inserire omaggi a poeti greci, cechi, ungheresi, inglesi, italiani, arabi, francesi, americani ai quali chiede un inconsapevole aiuto. Aleggia l’amato Montale, Eliot, Caproni, Luzi, Seifert e tanti altri che si avvicendano in questo testo senza evidenziarli, fatta eccezione per l’irlandese O’Grady, di cui ricorda Il Galata morente, in cui prevale la misericordia prima della resa. Alcune pagine appaiono scritte in apnea, nel terrore che qualche ricordo possa svanire, molte risposte sono lunghe e articolate nella necessità di essere esaustive e, come accade nella pittura, occorrono molte pennellate per completare l’opera, così Marianacci dilata le risposte, a Lei o a Lui, perché tutto sia possibilmente chiaro. Ma il passato non si cambia e i ricordi sono gli stessi e vivono con noi, “adesso”, eppure lontani da noi. Ma, nel tempo che passa, tutto è lontano e irrecuperabile, resta il tentativo di farli rivivere “ora” con gli occhi e le parole di ieri. Colpiscono le ripetizioni “Quando”, “Come”, simili a battiti accelerati del cuore, nella necessità di scrivere per non dimenticare, così le poche virgole, pochi endecasillabi, alcuni novenari e settenari, insomma, un verso libero di scorrere sulla pagina in una sincerità disarmata. Ciò che resta è stato e noi non siamo presenti. Eppure in ogni ritorno, si ha la certezza che l’amore, nella sua imperfezione, non ha mai rinnegato sé stesso. Insomma, un libro importante da leggere e consultare; una fucina ardente dove attingere e tentare di modellare.

 

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