di Fabio Barone
Giuseppe Rosato, Conversari, Casa Editrice Rocco Carabba, 2014
S’è la febbre del senno a rovesciare
i canoni e dare corpo a tutto
che non avrebbe ruolo di consistere […]
Cosa fa un poeta con la lingua? Cosa chiama, quale urgenza, quale spinta muove il suo incandescente magma a chiedere una forma, una partecipazione — una risposta?
Del tutto ch’è perennemente in fuga
non resta che il pulviscolo detrito
dell’affanno dei corpi appattugliati
ad opporsi alla rotta, l’illusione
di governare il movimento
puntando i piedi a forza, tra sprizzare
di scintille all’attrito. Non si arresta
la fuga, e la stasi ancora e ancora
è un sogno, irrisolvente nulla
il bel sofisma della tartaruga.
Sembra chiederselo Rosato, insistentemente, tentando verso dopo verso di mettere un punto alle domande, di lasciare al bianco della pagina il filo della sua visione, l’affanno del corpo delle sue parole.
È in queste strade, tra le case
picciole che ne tracciano
l’incerto filo, è qui che sperimenta
primamente la sera il suo silenzio,
nelle luci che a pena s’accendono
il giorno si disanima, un’ala
ne traspare ultimo segno di vita
o d’altro già annuncio
ma tenera, ma dolcemente
distesa nell’uguale
distanza dalla chiarità e dal buio.
A quale condanna si è ‘liberamente’ sottoposto il poeta facendosi coscienza dell’umanità, assumendosi un compito tanto infernale quanto inesauribile? La premessa ne «l’ascolto», e «quel discorrere | di sé con sé del mondo» — direbbe Mario Luzi —, le voci che giungono, gli alberi, gli umani, la storia:
Insistono infinite voci
a transitarci sempre più da presso
o come dentro, s’apre
la babele al mattino e non la placa
nessuna astuzia del giorno, nessun alibi.
L’attesa è che ne nasca il buio
dell’insonorità varcato il limite
ultimo del clamore, come
dal premere nel senno dei pensieri
– di più di più – si smagliano
le paratie alfine e ne dilaga
la follia, il devastato
bianco della sua requie.
È questa la veste di Conversari: un transitare nel giorno con le sue domande, lo stentato zampettio delle risposte e l’aprirsi vergineo e insonoro dell’occhio che vede il mare, del corpo che avverte su di sé il bianco della neve d’inverno.
Rosato dialoga, piega il corpo della sua penna per riversarsi nell’evento del mondo, la sua mente afferra, l’anima scalpita, infine ride:
Quello che si era visto frusto a frusto
della follia che tiene il mondo
poteva stazionare un po’ più a lungo
nella rètina almeno, ma qualcuno
aveva già premuto un pulsante
ed atro dilagava.
Era tempo di ridere.
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