di Edoardo Sant’Elia
È il profeta della modernità, un profeta astioso e generoso, che mette in guardia e non concede tregua. È un poeta ineludibile perché scavalcandolo non capiremmo nulla dei suoi e dei nostri tempi, che viaggiano sullo stesso binario, con gli stessi viaggiatori, capaci di cambiare carrozza ad ogni stazione pur senza mai mutare (l’inconscia?) rotta.
È Baudelaire: su cui Giuseppe Montesano torna a misurarsi con un corposo volume dedicato a I fiori del male e ad altri testi tradotti e raccontati. Una foresta di versi attraversata con impeto analitico, volta a volta punteggiata da un “commento-mosaico” che senza pretendere esiti definitivi tenta di restituirne la suggestione, rifiutando di “assaporare i singoli versi come se si trattasse di bignè ben glassati” ma piuttosto collegando continuamente ogni parte all’insieme, seguendo quell’oscillazione, quel movimento sussultorio proprio dell’autore francese, che a proposito del suo Spleen di Parigi scriveva: “Una piccola opera di cui si potrebbe dire, senza ingiustizia che non ha né capo né coda, poiché, al contrario, tutto vi è al tempo stesso capo e coda, alternativamente e reciprocamente. Togliete una vertebra, e i due pezzi di questa tortuosa fantasia si riempiranno senza sforzo. Tagliuzzatela in molteplici frammenti, e vedrete che ognuno di essi può vivere da solo”.
All’interno di questo universo, che contiene più mondi, tanto assonanti quanto differenti, Montesano traccia linee, percorsi di lettura, sottolineando peraltro come Baudelaire si esalti proprio nella “contraddizione”, nell’opposizione – che gli fu rimproverata – tra i contenuti aspri, insoliti, irregolari e la morbida perfezione della forma sonetto che li conteneva. E ancora, tra la bellezza sorprendente ed assieme irritante delle immagini e la radice filosofica al fondo di ciascuna di esse, quel processo capace di metterle in moto, di riversarle stilizzate, oscene all’occorrenza, sulla pagina. Non l’oscenità, tuttavia, ma il realismo, era la grande eresia dell’eccentrico poeta, che dietro “la maschera della lirica” aveva osato iniettare e non a piccole dosi la storia, la cronaca, l’attualità, in un delirio critico capace di apparecchiare nuovi palcoscenici, di costruire nuove sfacciate esibizioni prendendo il materiale dalla vita e non dalla letteratura, dalle strade gremite di anonimi personaggi, con i loro desideri, i loro sogni, le loro voci, e non dalle pagine inamidate, perfettamente risolte di altri libri.
“Poeta, è un insulto o un complimento?” si chiedeva Baudelaire in una poesia giovanile. Perché, ricostruisce e ribadisce Montesano, “se il poeta voleva fingere ancora di vivere prima dell’avvento della ‘prosa del mondo’ allora era un falso poeta, un produttore di merci culturali di consumo che avrebbero continuato a chiamarsi arte o poesia, ma che in breve tempo sarebbero state sostituite dall’estetizzazione della vita stessa”. Nella ‘prosa del mondo’, viceversa, Baudelaire si era immerso consapevolmente, facendo proprie le tecniche dei narratori dell’epoca e miscelandole con le altre suggestioni che proprio l’epoca gli suggeriva, linguaggi emergenti come l’illustrazione popolare, la fotografia, le prime immagini in movimento offerte dal Diorama. Tutto ciò che poteva servire a scuotere i nervi atrofizzati del suo pubblico, sollevandolo dal peggiore dei vizi, dal male supremo, quella Noia che lo stesso poeta quotidianamente combatte e senza spocchia addita: “Tu lo conosci, lettore, quel mostro delicato, / – ipocrita lettore – mio simile – mio fratello!”.
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