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Giovanni Ibello, “Dialoghi con Amin”

Nota di presentazione di Melania Panico

Giovanni Ibello, Dialoghi con Amin, (opera vincitrice del Premio città di Fiumicino 2018 – sezione inediti)

“La poesia è un lunghissimo addio", così si apre il poemetto di Giovanni Ibello, chiaro nucleo di un futuro lavoro più ampio.

Dialoghi con Amin è un lavoro sul frammento o meglio il luogo del frammento e dal frammento prende la sua forza vitale. Amin è un sopravvissuto soprattutto a sé stesso.

Tutto appare smisurato nell’addio, nella disgregazione e per questo “troveremo un altro modo per fare alta la vita". E cosa è questo Yucatan da ricercare?  Se il cifrario di Dio è “una giostra di tagliola e vento", il nostro Yucatan non può che essere la parola. Possiamo anche permetterci di dire fermati, fermati primavera, noi, impreparati e al contempo sempre pronti alla spilla ingannatrice della solitudine, come Amin che da buon sopravvissuto deve e può solo fare i conti con un assoluto di smarrimenti e di nebbie e all’interno l'alfabeto nuovo, l'alfabeto come nuovo santuario.

Il luogo della parola non è mai una zona grigia, anche quando parliamo la lingua dell’addio. È un altrove di spine e diademi.

Parte I: Luogo del frammento

I
La poesia è un lunghissimo addio.

II
Cercava la risacca nelle pinete
fiutava l’ombra di un ago sul fondale,
la panacea di un abbandono.
Conta fino a zero, le dissi
salta nell’arco cinerino.
È tutto calmo
qui è davvero tutto calmo,
il sole è una biglia di benzodiazepina.
C’è ancora un intreccio
di gelsomini carbonizzati sulla pietra.
L’estate,
una valanga di aceto sopra i fiori.
Ma in questo valzer di occhi crociati
non dire una parola,
non parlare.
Troveremo un altro modo per fare alta la vita.

III
La mia estasi rimane
lettera morta sul greto.
Brindo al disamore
al cuore profanato nell’acquaio
agli insetti fulminati nell’insegna.
Ci lega la parola feroce,
una giostra di penombre.
L’incanto di una teleferica,
l’esatto perimetro di un grido,
tu che muori
in quell’assillo di aranceti
che ritorna.
Era l’affanno antico,
l’anemone del giorno
divelto sopra i silos.

IV
Un debole fiammato
l’umore dell’alba sulle gru.
Belve cadenti
questo è il solo nostro arsenale:
il daimon dello spreco
stelle allucinate
frammenti di temporale.
Amin, è quasi giorno,
ecco l’ignota rovina.
Oltre la vetrata
flagelli di margherite:
l’amore è la mia tirannia.

V
Amin, è quasi giorno,
è la resa dei fuochi invernali
l’ectoplasma del divenire.
Dio, gheriglio di stella
insegnaci a svanire
poco a poco
insegnaci il dialogo amoroso
tra i picchi delle braci
e l’arpionata notte.
Adesso è tutta luna nuova
mentre ancora
tiri a sorte la vena
dio anatema,
ti sfiori trasognato le palpebre…
Quanti millimetri ci separano dal buio?

VI
La risacca ci insegna il solo rito possibile: lo smisurato addio.

Parte II: Teorema dei roghi

VII
I fiori di tarassaco sulle rotaie
annunciano il disfacimento.
Questo è il cifrario di dio:
una giostra di tagliola e vento.

VIII
Utero incendio
Amin, il volo a trapezio dei cormorani è un alfabeto senza luna. Avrai una stella di cenere
sul fianco, uno stecco di mezzaluce. Una spilla conficcata nel cuore di neve, la tua parola
sarà l’inganno, la Mesopotamia dell’invisibile: uno che batte furiosamente il viola dei polsi
sulla rena. Fermati, fermati primavera.

IX
La parola era il nostro Yucatan.

X
Sonno pulviscolare
Sei smarrito nel cimitero della sete. Amin, sei solo come la sfinge. Devi scornarti
con l’assoluto, con il rinoceronte nero. Troveremo il dio delle cose lontane, troveremo
una foresta di spine nel buio oltremare. Notte di canicola e di antenne. Sei smarrito
nel santuario delle nebbie. In un rammendo di secondi luce ti pieghi sulle ginocchia,
mescoli il sangue e l’acquavite. Dicevi: “Verrà la fine, verrà… la chiromante delle ustioni.”

XI
Verrà la vergine dei falò
verrà la vergine dai seni ulcerati,
un altrove di baci
al kerosene
un altrove di spine e diademi.
Ma noi
dimenticati relitti
ci amiamo nel buio degli hangar
e ripetiamo giaculatorie
dinanzi a un dio demente
che scalcia
nel grembo della cancellazione.

XII
Ultimo grado di giudizio
La vergine si chiama Xanita. Xanita conosce il teorema dei roghi, sa leggere
il crisma del sangue, il sigillo della fiamma sui covoni. Voleva raggiungere il mare,
lo zenit del diluvio. Disse: “Voglio il mare dei cigni arenati.” Poi attese il segnale,
il moncherino di luna… perché ogni cosa si annuncia solo mentre si sfigura.

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