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Giovanni Fierro, “Di questa città. Dieci storie on off”

"Solo qui si raccoglie vento e non si semina tempesta"

di Isabella Serra

Giovanni Fierro e Nicola Montemorra, Di questa città. Dieci storie on off, Qudulibri 2022

Quando lessi Gorizia on/off, il libricino padre di Di questa città, scrissi a Giovanni Fierro, autore di entrambi ed entrambi pubblicati da Qudulibri: tu guardi e scrivi con l'anima che ti cammina a fianco. Ti suggerisce cosa dire, col cappello abbassato sulla fronte, rende perfetto l’amore che scovi tra le piante e gli uccelli, tra le gambe e le vie della città. Te ne importa poco dell’amore che agogni, perché tanto non ci puoi fare niente. C’è in quasi tutte le tue poesie una porticina che ti immette nell’oltre. Il tuo addentrarsi si fa più fitto man mano che i mesi passano, come se non ti bastasse mai questa magia che entra, ti spalanca e ti ferisce. Sembra tu abbia iniziato il tuo cammino varcando l’entrata di una foresta: scosti piano le foglioline, poi le fogliolone, poi i rametti, i rami e via via la vegetazione si infittisce. Tu cammini, ti addentri e nomini. Quanto più conosci più dici. Ma sai che non è abbastanza. E lo sai così bene che le tue chiuse sono perfette, a volte inattaccabili: Sai misurare la durata / della fioritura di una fortuna e sai arginare magistralmente le inondazioni
perché dall’amore, tu dici, ne potrai uscire solo con una capriola.
Ora che ho letto Di questa città, posso solo dire e/o confermare che si tratta di una posa quasi perfetta dell'impianto sotterraneo dei cuori pulsanti. Dico "posa" anche per la corrispondenza eccezionale tra il sentire dei personaggi e le illustrazioni di Nicola Montemorra. Si tratta di dieci storie, continuazione di alcune tra quelle presenti nel precedente libro Gorizia on/off. Di queste storie sembra si sia fatta una cernita molto tagliente. Perché? Mi viene da chiedere.
Partiamo dalla prima Una quasi febbre. Il tragico si fa palpabile. Me lo vedo seduto sul bordo del letto, Giacomo Sputnik, ad affidarsi ad una fine che ancora non conosce, mentre il suo cuore sentenzia parole che trapassano l'aria, quasi fossero transatlantici: "la paura è nobile nell'inganno, l'allegria si toglie dal sangue del bambino, l'onore sa masticare con i denti del lupo". E non puoi nemmeno piangere.
E andiamo oltre, perché della bella Elena Bisiach non ho parole, se non elogiare la maestria di Fierro nel dare voce al dolore dell'anima di una donna.
Una mancanza che si attorciglia: "Non è un cielo, non sa avvitare le correnti, non spinge e non trascina. Ma forse è proprio così il momento che succede prima che qualcosa si spacchi". Il cuore di un uomo che si spacca arriva inevitabilmente a sbirciare attraverso le inferriate, a catturare, tra le morse che tengono ancora un'anima nell' "inspiegabile", la scintilla della verità (o di una). Sempre, o quasi sempre. Quella verità che a Stefano Guidi fa dire: "mio padre è stato più cattivo". Non serve per forza il verso poetico per spiegare cosa succede prima che qualcosa dentro di noi si spacchi. Può essere utile la fotografia, per esempio. E questa è proprio la fotografia dei pensieri che si avvitano in un turbine, fino a cadere e frantumarsi a terra, vomitando fuori la  verità. È la fotografia del cielo di un cuore che si incrina.
Ho tirato il respiro nella calma che trasuda dalla camicia dell'uomo senza nome alla mensa dei Cappuccini. Il suo è un totale abbandono al sole, al Creatore da cui riceve tutto dal suo essere niente, dal suo volere essere briciola. Il silenzio di quest'uomo è "senza larve e senza lombrichi".
Magnifico. Giovanni Fierro parla di "pace che non sa arrendersi", una pace che chiamerei più "gioia dura". È questa pace che non sa arrendersi che  costruisce poesia, che riesce a indorare una città, a tesserle tende a fiorami, a rubare la luce nascosta dagli occhi vacui di chi è pronto a morire, a chiamare
senza paura il tormento delle vespe, a dialogare con la bellezza morta, a stare di fronte alla "fatica che non conosce mai abbraccio", a dire sì alla vita, a portare in braccio il bene "senza trovare il filo scoperto del calore e del dolore". "Vivere è lo scavo della parola che ti difende, l'incisione sul silenzio che vuoi vicino, la presenza che non osi desiderare".
La scrittura di Giovanni Fierro è un puntare sul sentire che ti acceca sovente quando a volte si fa silenzio, e colpirlo. Se riesce ad esumare la carne viva del dolore di donna, Fierro riesce a dare nome anche allo sguardo di un vecchio: "la luce che mi piace è capace di farmi un nodo alla gola pur di non dover dire "vieni qui, stammi vicino". E forse non è lo sguardo solo di un vecchio, ma di qualsiasi uomo.
Leggendo questa prosa poetica, mi sono riconvinta, dopo momenti di abbandono salutare al niente, che il vivere lo scavo della parola è esattamente vivere, andando ad accarezzare quello che viene lasciato seccare per anni nelle pieghe raggrinzite della nostra anima. E accarezzandolo, si capisce che tutto ha un nome e una sua identità precisa, dalle foglie secche al sogno, che non vi è niente che non abbia importanza, e che se non si scava, presto si dimentica  l'incommensurabile che pulsa in cucina, nelle stanze e nelle vie, tra le gambe e sotto i cappelli, tra le mille finestre e in fondo agli alberi Di questa città: Gorizia.

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