di Davide Toffoli
Giorgio Ghiotti, Alfabeto primitivo, Giulio Perrone Editore 2020
Il nuovo lavoro in versi di Giorgio Ghiotti ha il sapore raro del tempo sospeso, che trasforma le parole, come accade in natura e in noi stessi, in un abbraccio tra speranza e paura. L’obiettivo costante sembra quello di recuperare ogni forma di bellezza andata perduta, ma si tratta di un’operazione che agisce indistintamente nel presente e nel passato, già a partire dalla dedica a Leonardo (Laviola, compagno di vita e apprezzatissimo pianista) e a Giovanna (Sicari, poetessa scomparsa ma sempre viva nei suoi versi). Nella pungente prefazione, Chiara Valerio definisce sottilmente ALFABETO PRIMITIVO un “polittico”, dove ogni testo non è che un pannello di un unico dipinto e, soprattutto, non si lascia sfuggire la già citata sospensione del tempo, fissato in uno sguardo adolescente grazie al dono prezioso della poesia che può non interessarsi al tempo, perché può presentificare; ma anche “un catalogo di giorni e di volti”.
La prima sezione, QUESTA È L’ORA BIANCA, getta subito uno sguardo chiaro sulle occasioni che vengono incontro, ma è un bianco su cui appare, quasi subito, il sangue. Sono testi dedicati al ricordo di Arianna Alpi, prematuramente scomparsa. Il paesaggio vede camminare, quasi tangibili sulle strade, ricordi vivissimi di chi, nonostante la morte, continua ad esserci (“superficie luminosa, nome d’aria / o solo aria senza più febbre di corpo”). Tornano alla mente le atmosfere che aprivano già LA CITTA’ CHE TI ABITA e sono pennellate impregnate di sentimenti che attraversano il docile confine della carne (“non so neanche più se è dare forma / o un modo diverso di finire”; “perché levato il capo, vinto / il pianto io riconosca in voi / quelli di sempre, davanti a un tempo / che non vi consuma”).
Proprio UN TEMPO CHE NON VI CONSUMA è il titolo della sezione seguente, aperta da una Giovanna Sicari, che persiste nel ricordo e nei versi (“da una carezza data sulla soglia della tua casa / dove non sono mai stato. Soltanto che non eri / proprio tu, ma qualcosa di simile che amo”). Si recupera la parte istintuale dell’uomo, il sogno, “la strega tuonante / a cavallo di una scopa invisibile”, al tempo stesso bambino e assassino. C’è l’ansia naturale di catturare gli istanti (“Avrò cura di amori non viventi, della loro / meraviglia nuda, della ferocia. / Non c’è altro che la coda dell’occhio / in cui cadere / in cui restare per sempre”). Il verso a volte frana, ma più spesso si articola e si distende tra ritmo e musica (“portano pioggia o vento, che quanto sento è più di quel che so, che non c’è / una sola via di conoscenza. Persino te, ti ho conosciuto meglio nell’assenza”). In questo tempo sospeso, bastano due occhi che incrociano lo sguardo per stabilire una preziosa comunicazione. Ghiotti è viandante dai “piedi antichissimi” (“Io ora ho l’età del mondo / e ti contengo intero nella vita”) che si muove fuori dal tempo mortale; il suo andare è un costante invito ad uscire dal sogno stanco, con l’atto breve del coraggio che spinga a riconoscere l’avvento della stirpe dei “Giganti”, dal “corpo non mortale e trasparente”. La chiave di volta è, inevitabilmente, la passione.
La terza sezione, TRIBU’, “raddoppia il battito del cuore” in un mondo in cui dettagli e cianfrusaglie raccontano storie; raccoglie una comunità di anime simili (Vittorio, Riccardo, Edoardo, Vivian), tutte rese familiari e coinquiline di una casa o di un luogo (“E’ possibile che tu abbia baciato la morte / e ne sia uscito più vivo”). C’è qualcosa che spinge da dietro, oltre tutta la materia. Fare tribù vuol dire resistere, alla vita e alla morte; una forma preziosa di preghiera (“Mistero piccolo rinchiuso nel tuo nome / stella di luce caduta in forma umana / aiuta il tempo che ora vuol nascere / significa la strada che conduce / al punto più alto del percorso, tra monti aperti / e laghi all’improvviso a destra del sentiero / aiuto tu, mio piccolo mistero, / quest’alba a farsi chiara a contenere / intatta la leggenda dei popoli”). Si incontra una parola che accomuna tutti, che rende famiglia nonostante l’assenza di coordinate di riferimento canoniche (“Non dirmi se gli dei che abbiamo creduto fratelli / li abbiamo inventati sotto le stelle chiamando / sasso il sasso e l’albero olmo”). Si viaggia in una dimensione di pace indisturbata, come figli purissimi della terra. Ogni piccolo particolare, ogni piccola presenza, contribuiscono al paesaggio. Presente e passato convivono. Gli oggetti ci sopravvivono e con essi le persone: è il modo dell’uomo per resistere. Anche Ronzoni, Carini, Agnelli e Battistini sembrano essere diventati morti di famiglia “sepolti nell’asfalto fra le radici dei pini”.
Si passa quindi a BOLOGNA m., sezione introdotta da tre versi di Cosimo Ortesta: si cambia città, ma l’alfabeto primitivo resta il medesimo. “Io, per me, non posso che / afferrare uno spazio in cui / tutto è già stato, riportarlo in vita / senza succedersi d’albe”, quasi una dichiarazione di poetica, evocando una dimensione quasi onirica che porta con sé una dilatazione inevitabile dello spazio e del tempo. Il poeta sembra avere il dono di fare tesoro di frammenti di sé, tutti di metalli preziosi (“sentirai / abbracciandomi / che ho un piede di bronzo, un cuore di fiamme d’argento / due polmoni d’acciaio bagnati nell’oro”). Sono versi rovesciati che parlano degli assenti e che continuano a dargli voce (“tu, in tua sovraesposta creazione / ricorda lo spettacolo del vento / del mare, e altrove ostinato ricerca / un amore lungo come il sempre”).
La quinta sezione, LA DANZA DEI MAMMUT, si accorda sui ritmi del salire e dello scendere quotidiani, evoca e alterna antiche pitture rupestri alle insegne luminose di una banca a Piazzale Morelli in una sorta di archeologia sentimentale che amplifica e decodifica i luoghi (“Ricordo lo sgomento in cui mi mise / la frase che aprì un varco nell’infanzia / il pallone che lanciai nel parco da bambino / non ha ancora toccato suolo”). Si osserva la mimesi del verso, mentre asseconda le passioni, dichiaratamente: “Di alcuni ho amato l’insieme, di altri particolari / obliqui, apparentemente inutili, finendo / per assomigliare a chi amavo ogni volta”. Tutto si muove e si esalta, tra vuoto e paura e la pungente inevitabile felicità della natura.
In ERA IL DOMANI, TUTTO NEL GIARDINO, sesta sezione, conferma che nel giardino d’infanzia c’era già tutto (“Era il domani tutto nel giardino, l’ultima parola / lasciata in consegna per scardinare la porta”), come del resto era già nota la destinazione (“La mèta è nota / la città di sempre, sovrapposta / come in un lucido d’infanzia / alle città viste per il vasto mondo”). “Monteverde di scuole, di ville, di salite” è un’immagine intrisa d’amore e di vuoto lasciato da chi se n’è andato; ed il viaggio è sempre ripetuto, tra ritorno e nostalgia, tra presenze che inseguono nel buio e odori che le rammentano. Tra miracoli naturali e abissi azzurri.
Molto suggestiva la sezione successiva, I PASSI LEGGERI, che sono quelli ispirati da Frabotta, Zeichen, Insana, Pagliarani (ridotti, forse per amplificarne l’intimità, a minuscole iniziali puntate); passi che si muovono in questa stagione di false lusinghe e tranelli, mentre “cresce / di notte la pianta del pane / non vista da occhi indiscreti”, per sempre fuori dal rumore del mondo dove, a volte, è accaduta la vita. Qua è la distanza ad impreziosire tutto (“Può darsi che sia vera soltanto / la distanza dalla quale ti osservo / e ti fa tanto più bella”).
In FIN DAL 1994 ci si imbatte di nuovo in un io multiforme e proiettato a sintetizzare in sé interi millenni e con essi il tempo. “Pascola nel buoi della specie”. L’intera comunità cantata è multicentrica. “Ecco cosa / lasciano in pensiero i cari morti, / un mestiere, un nome da attaccare / alla pelle per un residuo presente”.
6% è invece sezione composta da un trittico che riflette su un momento di vita vissuta, trasformandola in un interessante intreccio di esperienza e metafora (“Regalo di compleanno, 20 maggio 2019, una girandola di luce nell’occhio destro, uno sgranarsi della vista, pesantezza improvvisa. Per i miei 25 anni ho ricevuto una trombosi all’occhio, sipario su un 50% di mondo. Così ho deciso io quale metà vedere”).
Chiude il libro la sezione ROMANZA SENZA PAROLE, che ha andamento quasi di poemetto e lascia parlare Sof’ja Tolstaja, autrice dell’omonimo romanzo: sono versi intensi, musicali e pittorici, che restano in testa già ad una prima lettura: “Vederla anfibia la vita, animale, / saltare il fosso e tu saltarle accanto”. Si torna nel cuore della mancanza, ad affrontare un vuoto forse necessario, mentre “Violenta la natura si riprende / punto per punto tutto il suo splendore”. I ricordi, le parole, servono a curare l’assenza, a riempire il solco scavato dagli eventi e dalle storie. Bisogna sempre ricordarsi di parlare al giardino, di curarne le forme, di conoscerlo nei suoi più segreti anfratti.
“Quello che siamo è testamento e biologia” sin dal primo giorno della nostra esistenza. E Ghiotti ce lo rammenta con la sua poesia intima e delicata, dalle tinte accese e dagli strappi improvvisi, nelle musiche armonizzanti che la accompagnano sempre quasi in filigrana: questo ALFABETO PRIMITIVO è un inventario di memoria e malinconia, un vasto stradario di emozioni e sentimenti, che affronta ogni singolo frammento soprattutto perché, in nuce, contiene già la vita intera. E su questo labirintico dettaglio di strade è davvero piacevole camminare, insieme.