di Davide Rondoni
Gian Mario Villalta, L'apprendista, SEM società editrice milanese, 2020

Ci vuole coraggio per scrivere un tale romanzo, un romanzo a mantice, di aria e di mancanza di fiato, micro e macrocosmo, il coraggio non solo di guardare una realtà a cui si appartiene, fatta di figure umane, di costumi, di modi di essere, di storie. Ma anche il coraggio di penetrarla fino ai punti vivi e universali, quelli che di più mordono - perché sì, sono quelli - le nostre vicende personali, le stratificate mappe delle nostre biografie. Eliot lo aveva predetto: il mondo non finirà in uno schianto ma in un lamento. Il mondo che ritrae Villalta ne è un esempio, una porzione significativa. Non un lamento alto, ma dignitoso e a suo modo feroce. Lo fa ponendosi nella situazione più aliena a qualsiasi ricerca di moda letteraria contemporanea, entrando in un microcosmo che potrebbe dirsi asfittico come la sagrestia di una chiesetta dove due anziani portano avanti il lavoro strano di sagrista (uno il più giovane, 78 anni, Tilio, è appunto l'apprendista dell'altro, Fredi, più anziano di sei). Esiste qualcosa di più lontano dalla narrativa glamour? Eppure con lingua pulita e dente spietato, il narratore si affianca e diventa i due personaggi intorno a cui ruota un mondo rituale e ripetitivo, scandito da uguali stagioni e a cui si affacciano vicende, sempre filtrate da biografie minime, che portano in scena drammi collettivi e universali. Il lettore amante della buona narrativa ne rimane agganciato e quasi stranito, come se si chiedesse mentre lo legge "ma davvero sto leggendo la storia di due vecchi sagrestani e non riesco a smettere?"
Il punto per così dire universale e al tempo stesso di forte valenza storica rispetto al nostro presente lo si tocca quando uno dei due intuisce che loro, i due anziani, non sono soli né disperati - nonostante e anzi forse grazie a una vita di routine che affonda le sue radici in una civiltà antica - ma non hanno "la letizia del cuore". Una vita fatta di fratture e consolidamenti, di drammi e aria di paese veneto e italiano, di usi e rigide e slabbrate forme sociali, una vita di vicende narrate da millenni, come avviene per i Vangeli commentati tra sé e sé da uno dei due, o da preti che non ne sentono più il fuoco. Non sono né soli né disperati, ma non c'è più nessun fuoco. Di chi parla davvero Villalta? Di sé? Di cosa vede oggi intorno a sé?
Lo scrittore e poeta abita il microcosmo dei due, dei loro pensieri, del loro addormentarsi in sacrestia in una luce strana come due naufraghi, ma anche le cose che solo la lingua della poesia può cogliere, come certi sguardi e fughe di immagini, sfumature di affetti.
"Tu non sei stato una persona, sei stato tutto un paese. Andavi avanti e ti aggiustavi con i discorsi degli altri" dice a un certo punto Fredi a Tilio e gli dà un colpetto sulla spalla in segno di comprensione. Perché questo sembrava il destino di tutti. Un destino abbracciato e che ha assicurato una certa sicurezza e anche una certa agiatezza, ma non "la letizia del cuore".
In terra ognuno ha un compito, questo uno dei fondamenti di una cultura dominata dal senso del dovere. In un racconto riportato da un uomo che vendeva pesce nelle case durante la lontana infanzia di Tilio, si narra di un peschereccio sorpreso da una tempesta. Al che il capo della barca si mette a urlare ordini a tutti. E a chi gli chiedeva cosa dovesse fare il mozzo, poco più che un bambino, attaccato al legno, la risposta fu: "Faccia qualcosa anche lui: che preghi!" E poi una bestemmia aveva concluso l'ordine. Al tema della preghiera è dedicata una pagina intensa, tipica della confusione concettuale dei pensieri che procedono dal Vangelo letto e interpretato senza Cristo, ovvero solo con il "buon senso". Così come una intera fede ridotta a buon senso (un "Cristo come suocero" aveva detto Rimbaud, il fiammeggiante, 150 anni fa) perde il suo fuoco e la sua letizia del cuore - termine francescano per indicare non una generica gioia ma la presenza in cuore del rapporto con Gesù. Che è il vero tremendo assente in questa sagrestia e in questa comunità, il vero assente dal cuore pur essendoci un sacco di pratiche e di consuetudini apparentemente legate a lui. "Cosa avete di più caro del cristianesimo?" chiede a un certo punto nei “Fratelli Karamazov” il Grande Inquisitore allo Starec Zosima. E quello risponde: "Cristo stesso", buttando all'aria ogni sclerotizzazione della fede in morale, consuetudine, abitudine. Il romanzo di Villalta ha il merito di suggerire pensieri liberi e profondi attraverso i suoi personaggi che si scolpiscono piano piano nelle pagine con i loro drammi familiari e i loro gesti e pose (memorabile quello stare a sedere in sagrestia quasi muti con tagli di luci che immaginiamo tra Tiziano e Tarkovskij). Così Villalta ci dona un romanzo a mantice e a spirale, dove scendiamo insieme ai due protagonisti per gesti minimi e faccende grandi e mostruose della storia privata e collettiva, non uno stile sorvegliato eppure, al contrario delle anime descritte, dove persiste un fuoco di poesia che si radica in una sana "insoddisfazione della insoddisfazione". Perché questo specchio in cui guarda (anche) sé stesso si sente che l'autore vorrebbe romperlo con un pugno. Come a una cosa amata e pur detestata. E la violenza di quel pugno ancora sospeso è la vera energia anche verbale e poetica di questo lavoro.
Leggi anche
- 1 settimana fa
- 2 settimane fa