Ci accingevamo a pubblicare questa nota al libro di Gabriele Galloni quando ci è giunta la notizia della sua scomparsa. Unendoci alla preghiera di chi gli vuole bene e al dolore di familiari la pubblichiamo certi che Dio che ama i giovani poeti lo tiene tra i suoi.
Davide Rondoni
Una passeggiata quasi cinematografica
di Fabio Barone
Come si chiamano, chiedi, quegli alberi
delle zone di mare; quelli secchi,
con rami tipo mani che si tendono
a chiedere invisibili elemosine?
Gabriele Galloni, L’estate del mondo, Marco Saya Edizioni, 2019
Non sai mai se l’impressione che un libro ti ha lasciato a lettura ultimata è quella giusta, ovvero la più vicina all’impronta conscia o meno che l’autore ha dato all’opera. Ma tant’è, quel che intuitivamente s’è mostrato al mio sguardo de L’estate del mondo di Gabriele Galloni, edito nella collana diretta da Antonio Bux per Marco Saya, è una passeggiata fra i tanti luoghi di Roma e dintorni, molto cari allo scrittore, dove in essi scorgere un’evidenza di natura estetica. Mi spiego meglio. L’evidenza di cui parlo è la visione di una composizione che appare nella sua semplicità reale, ma in cui il poeta vede, e percepisce, qualcosa di più, come se improvvisamente un’eccitazione corporea elevasse quel luogo dentro un aspetto ideale, lo slegasse per un attimo dal resto a cui è fisicamente unito e per elezione lo rendesse traccia della sua viva esperienza:
Ma non ho nulla, cielo, da mostrarti.
Ecco: sorprendimi giù a Fiumicino,
tra i Dioscuri e le case popolari;
fa’ ch’io raccolga l’ultima conchiglia
dell’estate, occhi chiari;
e la conservi agli anni in una tasca
così profonda da dimenticarmene.
L’elaborazione in parola sta poi alla sensibilità immaginifica dello scrittore, e in questo libro Galloni tra squarci di realismo elevato ad evidenza estetica ci porta in una passeggiata quasi cinematografica: con carrellate che dal suo sguardo conducono al paesaggio che lo circonda, per poi tornare indietro come in un “campo” e “controcampo” di un mosaico d’impressioni in cammino. Il corpo di Galloni non è da solo in questa passeggiata-ricerca, molte poesie sono rivolte a un Tu: un Tu per cui pronunciare, a cui rivolgersi per domandare e con cui stupirsi: «Ponte Galera. Il salice nel mezzo / del giardino ripara i nostri giochi / dal sole: non ti sembrano i suoi rami // le ossa del mare sottili o le lische / degli angeli? Ce ne ubriachiamo quasi / quando i tuoi genitori si addormentano. // E indossiamo le foglie sulla pelle / arrossata, sfiorandoci – e alla danza / si aggiungono via via le mie sorelle // da chissà dove uscite».
A fine lettura è difficile levarsi di dosso l’impressione di aver attraversato come in un montaggio di scene il parcheggio del centro commerciale e Torvaianica, Fiumicino e le tante case e stradine e spiagge in cui da un lieve senso di morte, per l’inevitabile fine di un ricercato piacere – di un’estate appunto – si arrivi a chiedere a «quelle lampade di carta di riso» una «preghiera»:
E quelle lampade in carta di riso
rimangono accese ogni notte
nel prato dietro la tua casa nuova;
lo sai che sono l’ultima promessa
dell’estate? Come a dire: che non piova
mai sulla costa e sempre si mantengano
i mesi intatti – e la tua casa nuova.
Ecco. Una specie, questa, di preghiera.
Dal mare, topos continuamente cercato e continuamente caricato di senso, arriviamo alla «ultimissima / riva del mondo», limite ultimo ma da cui la volontà dell’autore si leva in una promessa nuovamente pronunciata a un Tu – anche questa una specie, dico io, di preghiera:
[…]
Soltanto c’è da definire i nomi
che nuovi diamo alle cose e ai viventi.
Perché di questo molto ci appartiene;
ci apparterrà per sempre. Dammi un nome –
fai sì che duri in questo e altri eoni.
Un nome; io farò con te lo stesso.
Non costruiremo mai nessuna casa;
dormiremo tra impronta e impronta sulla
sabbia, lasciando che la pelle faccia
di sé insanabile ferita giorno
dopo giorno. E così via fino all’ultimo
ramo del tempo; fino al giorno in cui
concessa ci sarà un’assoluzione
definitiva di ogni corpo a corpo.
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