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François Nedel Atèrre, Limite del vero

Nota di lettura di Melania Panico

François Nedel Atèrre, Limite del vero, La vita felice 2019

Mi sono trovata molte volte a riflettere sulla poesia di François, avendone curato la postfazione al libro precedente, Mistica del quotidiano, quindi parlare di questo nuovo libro, che esce a distanza di poco tempo da quello precedente, eppure diverso, quasi una evoluzione, quasi come se l’autore avesse pensato i due libri insieme e comunque nell’ottica di una evoluzione di temi – e poi si sentirà – significa riflettere sulla portata di una poesia che chiede al lettore attenzione ma dà in compenso molto al lettore stesso.
Limite del vero, un titolo emblematico che ci inserisce nel discorso di riflessione sul rapporto arte/poesia e soprattutto poesia/verità. In merito al primo punto, ovvero il rapporto arte/poesia e quindi in merito a questo rapporto fatto di continue rincorse e continui sdoppiamenti, mi piace ritornare a una iniziale riflessione di Tolstoj proprio sul senso dell’arte e dei concetti legati all’arte che sono il bene, la bellezza e la verità.
I greci pensavano al bene e al bello come coincidenti, invece già Winckelmann vedeva una separazione dei due concetti, anzi per Winckelmann l’arte si identifica con la bellezza che è indipendente dal bene, per non parlare di Kant la cui estetica si fonda proprio sulla distinzione tra bellezza e utilità. Cito Tolstoj dal saggio Che cos’è l’arte: “il bene è veramente un concetto fondamentale che costituisce la sostanza della nostra coscienza; è un concetto che non può essere determinato dalla ragione. La bellezza invece non è altro che ciò che piace a noi. L’idea di bellezza non solo non coincide col bene ma piuttosto gli si contrappone. Quanto più ci dedichiamo al bello tanto più ci allontaniamo dal bene. Lo so che a questo proposito si tende a dire che la bellezza può essere morale o spirituale. Ma è soltanto un gioco di parole. Per quanto concerne la verità, noi chiamiamo verità soltanto la rispondenza dell’espressione o della definizione di un oggetto con la sua sostanza, oppure con la concezione dell’oggetto medesimo universalmente accettata da tutti gli uomini. Verità è la rispondenza dell’espressione di un oggetto con la sua sostanza, e perciò è uno dei mezzi per conseguire il bene ma di per se stessa la verità non è il bene”. Quindi la verità è un mezzo per raggiungere il bene ma non coincide con il bene.
Perché parlo di questo? Per ricollegarmi a quell’altro rapporto poesia/verità. Penso a Hans Georg Gadamer che sul rapporto poesia/verità ha discusso ampiamente: “mi pare innegabile che il linguaggio della poesia abbia una particolare relazione con la verità. Il poeta e la poesia si distanziano in modo essenziale da ogni forma di discorso motivato. Siamo volti interamente alla parola quale in sé si presenta. La poesia non ci sta dinanzi come qualcosa tramite cui qualcuno vorrebbe dire qualcosa. Essa sta salda in se stessa.” Quindi si parla di autorealizzazione del linguaggio. Nel linguaggio avviene l’esperienza della verità. E autorealizzazione significa che la parola poetica si compie in se stessa ovvero non rimanda a altre istanze. Per Gadamer è decisivo che la parola evochi il dasein ovvero l’esserci e la verità della poesia sta nel fatto che essa realizzi un “mantenimento della prossimità”. La parola poetica quindi attesta la nostra esistenza essendo esistenza (dasein) essa stessa.
Ergo ci troviamo, con questo libro, automaticamente nel concetto di poesia onesta a cui fa riferimento Maffii nella postfazione. In senso sabiano. Quando la parola letteraria corrisponde alla sua stessa visione. Si ha l’impressione, con Limite del vero, di attraversare a occhi chiusi l’aria a tratti inaccessibile del nostro tempo. Ma come si esce da questo? E qui ci viene in aiuto Paul Celan. Cito una pagina del discorso fatto in occasione del conferimento del premio letterario della libera città anseatica di Brema: “Con questa lingua, in quegli anni e negli anni che seguirono, io ho tentato di scrivere poesie: per parlare, per orientarmi, per accettare dove mi trovavo e dove stavo andando, per darmi un prospettiva di realtà. Fu il tentativo di trovare una direzione. Sono i tentativi di chi, sorvolato da astri che sono opera umana, chi, senza tetto anche in questo modo finora imprevisto e dunque esposto nel senso più inquietante della parola, s’accosta con la propria esistenza alla lingua, ferito di realtà e realtà cercando”.
Limite del vero si apre con una invocazione alla musa. Questo crea un certo rapporto con la classicità, come è ovvio, ma è anche un anello di passaggio tra il precedente Mistica del quotidiano e questo. In tutta questa prima parte del libro l’autore chiarisce di cosa si vuole parlare: “noi siamo immersi in un acquario. I pesci / senz’acqua, stanno fuori. Sugli stecchi / sospingono palloni, i ragazzini. / qualcuno appanna il vetro, il mondo è illeso”. E ancora a pagina 19 “altri poi sanno tutto del paese / in cui non hai vissuto, tua la spiaggia / di sassi, il ponte e, curva sulla sabbia / una baracca minima di legno. / allora lascia i biglietti, i bagagli / le chiavi dei lucchetti. Non riguarda / più noi quel viaggio, e neppure il tragitto”. C’è qualcosa di montaliano in questa raccolta. Il segreto, l’elemento scoperto che all’improvviso porta il conto. Soprattutto in questa prima parte c’è un continuo rimarcare la mancanza, la mancanza a se stessi, o come fossimo abituati a vederci in un modo e improvvisamente ci rendessimo conto che la nostra è una visione distorta. Poi arriviamo a una poesia fondamentale che è quella a pagina 40, L’ora è terribile, raggela il cuore.
Cosa succede in questa poesia? Ci stiamo avvicinando a ciò che intende l’autore per “limite del vero”. C’è una realtà descritta e c’è anche la negazione di questa realtà. Come si cancella la realtà? Negandola. Quindi si potrebbe dire che la negazione è il limite del vero.
Nella sezione che si intitola “la città - se c’è, se resta” ci troviamo nel passaggio cruciale. Potremmo intitolare questa sezione anche “limite del ricordo” perché qui ci avviciniamo a una idea di sistemazione. Dopo non ci saranno più elementi relativi al passato e ci troveremo completamente nel poema elegiaco/civile: “un poco piove, la sera. / la busta che hai lasciato, gli scontrini / gli appunti in piccole strisce di carta: / l’ho fatto anch’io il tuo sogno, amore, è vero / quello che hai visto, non ti spaventare”.
Poi c’è la sezione Meccaniche, membrane della luce. Bella questa associazione di due elementi quasi ossimorici, membrane e meccaniche, in cui però il punto focale è la meccanica, ciò che sta sotto, quello che non si vede e quindi si comprende dopo. Qui la parola luce torna spesso. Se nella poesia a pagina 40 eravamo immersi in “un’ora terribile che raggela il cuore”, adesso invece “era un giorno di sole”. Bellissima la parte in cui l’autore scrive: “quando se ne fu andato da un’uscita / nascosta – discrezione era il suo verbo – / si videro parole del discorso / lettere grandi e piccole, per strada / aggrovigliate, in attesa di aiuto”. E mi pare di ritrovare quello che dice Gadamer.
E arriviamo all’ultima parte del libro ovvero “Et nunc manet in te”. Che poi è anche il titolo di un libro di Gide a cui l’autore è molto legato. Si tratta del diario intimo di Gide che parla della sua vita con la moglie Madeleine. C’è una poesia a pagina 85 che fa: “è questa fede nel martirio il vero / miracolo. Tu implori da lontano / io temo di risplendere o che guardi / il mio costato e non le mani stanche”. Questa sezione amorosa è una sezione anche pervasa da una forte tragicità, la tragicità del destino ovvero essere destinati volenti o nolenti a essere amati male o ad amare poco.
“Si porta avanti quello che abbiamo. Più avanti / avremo stanze dove fare tardi”. Mi pare ci sia una domanda costante che poi è la domanda con cui si conclude il libro “io non riesco a capire / se questo posto che attraverso è nuovo / o sia sommerso da altra vita o ruoti / veloce su se stesso il mio giardino”. Una tragicità del destino può essere capovolta, un forte senso di speranza, una speranza nella lotta, nella lotta per il bene che adesso, sì coincide con il bello. In questo caso.

L’ora è terribile, raggela il cuore.
C’è ancora il sole, sul vostro balcone.
Nel bosco sacro come nei giardini
pubblici, stanno riscrivendo il rito.

Soffia di più il vento, sembra che parli
(è solo una canzone, su, sta’ calmo.)
Il giovane ufficiale, il sacerdote
cancellano le formule e i registri.

Che velo aveva, era sicuro bianco?
il legno delle sedie era maturo
o scricchiolava? i grandi quadri accanto
erano alti, qualcuno li guardava?

Sui testimoni si addensa il sospetto,
le esitazioni nella voce, colpe.
Si bussa ai fianchi delle casse, è in dubbio
la buona fede di chi se n’è andato.

Essere certi del nome, del posto.
Che qui sia ancora nota a chi è rimasto 
quella casa sparita, anche a uno solo.
Così bisogna rifare quel marmo 
dal marmo, e dire sabbia, alberi e vento
per rivederla. Non c’è molto tempo.
Il lungomare ha il suo spazio dov’era,
la gente che passeggia, che sta in piedi 
o guarda. È meglio andare qualche metro
davanti a me, per vedermi in cammino
tra gli altri, e se mi volto, se saluto.

Che strana fissità sopra il terreno
hanno i palazzi e gli alberi. La luce
mancando all’improvviso nella strada
salda il suo vecchio debito ai colori:
così un andirivieni di piastrelle
si forma sotto i lampioni, tra i muri
e chiede verità. Qui si prepara
qualche altra cosa non detta, e finestre
schermate dalle tende già lo sanno.

C’è la tua voce, tra un momento e l’altro.
La curva lunga della strada, dove
la vita che non mi appartiene stende
le gambe o si raccoglie. E in questo giro
di lampi che maturano, di luce
che si separa, io non riesco a capire
se questo posto che attraverso è nuovo
o sia sommerso da altra vita o ruoti
veloce su se stesso il mio giardino.

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