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Forugh Farrokhzad, “Tutto il mio essere è un canto”, Lindau

di Edoardo Sant’Elia

   Finestre. Di tanti tipi, di vario genere. Spalancate, chiuse, trasparenti, da aprire. “La poesia, per me, è come una finestra. […] So che aldilà di questa finestra c’è una persona che ascolta, una persona che potrebbe vivere tra duecento anni oppure essere vissuta trecento anni fa, non importa”. Dalla teoria alla pratica del verso: “Dietro la finestra / l’ignoto è in ansia per noi”. E poi: “Se verrai a cercarmi, o amato, / portami un lume, e una piccola / finestra per guardare la strada affollata e felice”. E ancora: “Uno strano volto / di là dalla finestra mi disse: ‘la verità è di chi vede.  /  Io sono il tremendo senso dello smarrimento’”. Ma anche, più lieve: “la primavera affidava la mia finestra / alla verde illusione degli alberi”.

   Tante finestre per affacciarsi sul mondo, un mondo suggestivo, eppure un mondo che giudica, che spia. Forugh Farrokhzad, poetessa iraniana, nonché attrice e documentarista, nella sua breve intensa vita (1935-1967) non si è negata nulla, nulla che ostacolasse la sua più intima vocazione, coltivata a prezzo di qualsiasi sacrificio – un matrimonio d’amore finito nel divorzio, l’impossibilità conseguente date le leggi dell’epoca di rivedere il figlio –, una vocazione coltivata attraverso numerose esperienze, teatro, cinema, arte, ma sempre tornando a misurarsi col verso, con le esigenze della scansione metrica, con una profondità di senso altrimenti inattingibile perché “In poesia non cerco qualcosa, trovo me stessa”. Conoscersi per capire, dunque, per introdursi nella realtà rimanendo persona autentica, con le proprie ansie e le proprie certezze continuamente rimescolate, pronta a rimettersi in gioco secondo gli umori del momento, le occasioni offerte, senza farsi illusioni ma senza ritagliarsi comodi angolini: “O vuota vita, / sono ancora colma di te / non penso di tagliare la corda / non voglio fuggir via”.

   Questo volume, curato da Faezeh Mardani, ci offre un compendio esaustivo, il più ampio apparso finora in Italia, della poetessa di Tehran, non solo le raccolte ma diari, lettere d’amore, interviste, anche poesie a lei dedicate da parte di altri poeti iraniani; perché la sua voce, già famosa in vita, è stata poi riconosciuta come la più importante della letteratura femminile iraniana. La sua femminilità, peraltro, è inscindibile dalla sua coscienza sociale, ‘sentirsi’ attraverso il mondo sembra l’aspirazione ultima di Forugh Faaokhzad, un’aspirazione difficile se non impossibile da realizzare dovendo superare ancestrali pregiudizi, convenzionali atteggiamenti, sguardi puntati pronti a non perdonare il minimo sbaglio; ma d’altronde, qual è l’alternativa: consegnarsi nelle mani degli altri? In Bambola meccanica, con sarcasmo amaro, con pungente ironia, la poetessa elenca tutti i modi in cui una donna può annullarsi fingendo di credere in qualcosa che non esiste, almeno per lei, un amore, un’istituzione, una consuetudine: “Puoi appendere / nella vuota cornice di una giornata / l’immagine di una vittima, condannata o crocefissa. / Puoi mascherare le crepe del muro / o aggiungere altri futili ritratti. / Puoi guardare al tuo mondo / con gli occhi vitrei di una bambola meccanica”.

   Ingannevoli simulacri, incapaci di riempire una vita. E allora nel rapporto anima/mondo torna prepotente la metafora della finestra, che al contempo separa e unisce: “Una finestra mi basta, / una finestra verso l’attimo della conoscenza, / dello sguardo, della quiete”.

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