Fame d’aria di Daniele Mencarelli: oltre la solitudine che ci soffoca

di Carola D'Andrea

Daniele Mencarelli, Fame d'aria, Mondadori 2023

Fame d’aria: questo il titolo del nuovo romanzo di Daniele Mencarelli.
Fame d’aria: tre parole che immediatamente, dopo averle lette sulla copertina del libro, si sono incastonate tra gli occhi e le labbra nominando ciò che si muoveva informe dentro di me. Ecco allora che emerge, ancora una volta, dopo La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza e Sempre tornare, chiara e radicale la natura della parola di Mencarelli, una parola che, germogliando dal suo sguardo poetico sul mondo, riesce a dare nome a ciò che, pure innominato e indefinito, toglie il respiro e preme nel corpo.
Fame d’aria è quella che prova il protagonista del romanzo, Pietro Borzacchi, a cui la nascita di un figlio gravemente disabile ha strappato lentamente ogni desiderio, sentimento e speranza, lasciando il vuoto di una domanda a lungo urlata, contro Dio, il mondo o il caso, ma poi abbandonata nel silenzio. Ed è proprio qui, nello spazio ferito della solitudine, che Pietro trova rifugio, costruendo distanze da chiunque tenti di avvicinarsi e dalla realtà, quindi da quell’alterità che, toccando le pareti del nostro dolore e delle nostre paure con la semplicità dell’esistere, intercetta quell’umanità che credevamo di avere perso o annientato. Quella stessa umanità che Pietro, non trovando come risposta nello sguardo del figlio, «che vive e ama da animale», inizia a fuggire e odiare. Infatti, se uno dei primi gesti che deriva dall’amore e che si compie all’arrivo di un bambino è quello di dargli un nome, di scegliere quel nome che racconterà di lui, di quella nuova esistenza nel mondo, Pietro lentamente inizia a rifiutare il nome del figlio, Jacopo, sostituendolo con uno mostruoso, Scrondo, un nome adatto, secondo il suo cuore ferito, per rappresentare quella vita deformata, «per nominare gli strani, gli irregolari, gli anormali. I mostri».
Daniele Mencarelli, attraverso la sofferenza e la rabbia del protagonista, obbliga il lettore a riflettere sulla condizione, oggi assai diffusa, di tanti genitori costretti ad affrontare in solitudine non solo le difficoltà concrete derivate dalla gestione di una disabilità, ma soprattutto quel dolore che deriva da una realtà che si presenta del tutto diversa dalle nostre aspettative e dai nostri desideri. Nei mesi che precedono la nascita di un figlio, infatti, i genitori costruiscono un’immagine di quello che sarà il loro bambino, nutrendo sogni e rappresentazioni che, se non corrisponderanno alla realtà, per motivi anche diversi da quelli che concernono la disabilità, crolleranno causando una ferita da elaborare come un vero e proprio lutto. Tale dolore potrà essere affrontato soltanto attraverso un’apertura nei confronti della realtà, anche se dolorosa, e degli altri, che siano genitori che vivono la stessa condizione, parenti, amici o professionisti capaci di accompagnare in un percorso che permetterà di guardare la verità senza fuggire o negarla. Pietro, al contrario, dopo tanti fallimenti e difficoltà, si chiuderà in uno spazio il cui perimetro è rappresentato dalla rabbia e dall’odio e al cui interno, nascosti e protetti, si trovano l’amore per suo figlio e i ricordi di quando era ancora Jacopo.
L’autore, ancora una volta, ci mostra, con quell’onestà e crudezza che a volte risultano urtanti, l’abisso del cuore umano, capace di custodire e accogliere il bene, ma anche di nutrire e provare il male, l’odio. Tra i due estremi, perennemente in lotta dentro l’anima, si pone la nostra scelta, lo sguardo che decidiamo di avere sulle nostre azioni, sui nostri sentimenti e su quelli degli altri.
Inoltre, il protagonista di questo nuovo romanzo sembra allontanarsi da quelli precedenti, i quali era come se, in fondo, si sentissero responsabili e colpevoli di quel male ricevuto, del dolore provato o dato alle persone amate. Pietro, al contrario, quasi nell’eco di Renzo e Lucia alla fine de I Promessi Sposi, non comprende la ragione della croce ricevuta, perché, in fondo, lui i guai non se li è cercati, e quindi quel figlio strano «è la prova provata che non esiste un cazzo. Solo la natura che ogni tanto si inceppa. Punto». Tale sovversione ci ricorda allora che non basta stare dalla parte del bene per evitare il male, ma che l’esistenza, qualunque esistenza, richiede una continua lotta e scelta anche e soprattutto dentro la croce più grande.
La storia di Pietro, seppure con le sue specificità e differenze, è la storia quotidiana di ognuno di noi, perché tutti, dinanzi a una realtà che non corrisponde ai nostri desideri, dinanzi a sofferenze di cui non riusciamo a comprendere la ragione e per le quali a volte non riusciamo neppure a chiudere aiuto, siamo posti dinanzi a una scelta e a una lotta: costruire difese e muri allontanando gli altri e la realtà, quindi chiuderci in una vita senza possibilità di sorprese ma alimentata dalla rabbia e dalla paura, oppure continuare a fissare, con gli occhi asciutti o pieni di lacrime, un Bene più grande a cui aggrapparci e abbandonarci, permettendo a tutto ciò che supera i nostri limiti, proprio perché non ci appartiene, di entrare e fare luce.
Si tratta di scegliere dove posare lo sguardo, di amare anche e soprattutto ciò che ci sfugge e non riusciamo a comprendere, lasciando agli altri e all’Altro la possibilità di esserci e di nutrire la nostra fame d’aria, perché, come ricorda Mencarelli attraverso le parole in esergo, Dio è un altro.

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