di Davide Rondoni
Alessandra Corbetta, L'età verde, Samuele Editore - Pordenonelegge Poesia, 2024
Il lettore mi faccia credito di delicatezza. Mai vorrei che queste poche righe, invece di muovere al pensiero e al turbamento, ferissero qualcuno. Ma la materia è delicata, e non può che esserlo quando la conversazione sulla poesia invece di rimanere sulle superfici, o persino sui convenevoli, scende a toccare midolla, ventre, cuore, anima.
Appaiono sempre più spesso favolose bambine nelle raccolte di alcune non più giovanissime poetesse italiane. Ad esempio nei recenti libri di Eva Laudace e Alessandra Corbetta, ma anche nella Leardini e nella Colella e qua e là altrove. Senza dimenticare le prove poetiche e narrative antecedenti di Lucrezia Lerro. Appaiono con le ovvie differenze e con diversi gradi di costruzione e riuscita (ad esempio un poemetto teatrale quello della Laudace, una sezione invece in Corbetta, disseminate in altre). Un altro poemetto sulla bambina - infine espunto - era anche nel libro ultimo di Alessia Iuliano. E altre bambine troviamo adombrate nei versi della Leardini e di altre come Mussoni. Un caso? Forse. Una tendenza? Beh, gli antecedenti ci sono, da "Piccole donne" in poi, ma non mi pare che tra le poetesse del passato ci fosse questa mitizzazione dell'infanzia. Mito tremendo va detto subito, perché non parliamo certo di rappresentazioni di fanciulle dalla vita melliflua, vite che però la distanza d'anni certo carica o rilegge - non solo nel segno di Freud - come gravide di segni e ferite e presagi. Insomma, una tendenza mitizzante. Intendo che in tale mitizzazione dell'infanzia femminile da parte delle poetesse - ripeto, ognuna con voce diversa - va forse letta una questione che nella nostra società vive e riverbera anche in altre questioni e campi. La questione meriterebbe ben altro approfondimento, ma in luoghi diversi, con segnali distanti ma convergenti a quanto in queste poesie si dice e non dice - ad esempio le crescenti patologie legate alla percezione del corpo, le ansie di abbandono che diventano allarmi continui e patologizzati, o le percentuali nettamente più alte in campo femminile di richieste di transizione sessuale. Siamo di fronte a una difficoltà di accettazione della femminilità? Esplode nella mente questo singolare ma non aleatorio interrogativo. Ovviamente, in campo poetico il ricorso mitico a una zona della propria vita pre-sviluppo può avere molte ragioni, e essere una indagine sulla mappa di traumi o silenzi maturati nel "bosco" delle relazioni (anche il bosco torna spesso nelle pagine di queste Cappuccette Rosse). Ma non può interrogare il fatto che non mi pare avvenga cosa analoga in campo maschile. E se affiancato ad alcuni degli elementi citati prima (altri se ne potrebbero indicare, anche sulla scorta degli studi di Eugenio Borgna e di Giovanni Stanghellini e delle statistiche su argomenti confinanti), emerge come dato, e forse più che il tanto decantato - da media e mainstream - problema "patriarcato", un diverso problema ben più sentito se pur strisciante e raramente esibito, per pudore o insensibilità, di irrisoluzione della femminilità o comunque di difficoltà di accettazione della medesima, coi suoi alti tributi al mutamento del corpo, all'esperienza del sangue, alla concretezza spesso fastidiosa della carne, alla doglia. E anche per reazione forse a un'epoca di "rappresentazione" estetizzante del corpo in contraddizione con la diffusa censura della carne reale e dolente. Tale difficoltà è registrata o in rapporto alla madre (debole o indebolita) o ai passaggi dall'informe alla forma, e dalla forma protetta e innocente alla forma rischiosa e "sprotetta". Certo, conta molto anche la reazione a una sorta di riduzione degli sguardi correnti a portatori di meri interessi economici o erotici. Ovvero a una diffusione di "sguardo predatorio" (peraltro non solo appannaggio maschile ma certo in gran parte) che intimidisce, respinge e spaventa. La cupidigia di ogni tipo nel mondo ha come vittime primarie le bambine.
In queste poche note da lettore, senza nessuna pretesa di esaustività, si voleva segnalare un problema - confermato empiricamente dalle conversazioni con diversi psicologi. Uno dei problemi taciuti e che invece la poesia e le potesse non hanno timore ad affrontare, spesso al volgere di una età significativa di fine della giovinezza e quindi di riduzione delle occasioni di espressioni delle potenzialità. Se il fanciullino di Pascoli era da un lato il tentativo di permanere in un incanto dello sguardo, e dall'altro in un nido, queste "fanciulline" sembrano avere a volte sguardi ossessionati, sole nel bosco. Forse aveva ragione quanto adombrava in un suo verso Antonio Riccardi: le ragazze bellissime sono state bambine molto sole. E quando non sono più ragazze, aggiungo, queste solitudini vengono forse a chiedere il conto, a chiedere di essere rilette e poi trasformate in mito, in leggenda. Per sopravvivere? Per sperare?
In ogni caso grazie ancora una volta ai poeti che aprono gli occhi su quel che è forse scomodo mostrare. Questa mia lunga premessa, generale, vale a introdurre, almeno da una prospettiva non solo individuale, l'ultimo libro di Alessandra Corbetta, edito nella gialla di PordenoneLegge. Sul piano individuale, la voce della Corbetta appare qui più decisa, più ferma. Accanto alla fanciullezza femminile mitizzata della prima parte, le altre sezioni sono attraversate dalla medesima lotta. Si tratta della lotta per la sopravvivenza, in un'aria di continuo allarme che penetra in tutti i rapporti, quelli coi familiari sempre al centro della poetica dell'autrice, quello con l'amato, e con se stessa. Ci sono punti di grande vertigine, altri come sciabolate. E se "c'è una bestia tra le costole della bambina" è vero che lei, cresciuta con un padre che "ha praticato il silenzio" e una madre che "retrocede nello splendore", cerca ancora "spazi ornati di frutta e di fiori" come un Eden. La poetica della Corbetta è in questa polarità che non riesce a uscire dalla mitizzazione. Una idealità polare della vita, che se da un lato potrebbe essere la tensione che dà forma all'esistenza (Paradiso e Inferno sono la polarità che anima la libertà, sia per chi crede alla loro esistenza, sia per chi li metaforizza in molti modi...) dall'altro sembra essere invece la tensione che la nega, la arresta, la comprime. Credo che ciò si debba a una specie di mancanza di dismisura, di mancanza di perdita del controllo. Diciamo di paura di una vera libertà esistenziale e ontologica? Anche i versi sono misurati, misurato il lessico. Raramente il lampo, lo strazio, l'entusiasmo. Come a temere di finire in territori incerti, in dismisure che richiedono non tanto altri strumenti (Corbetta è poeticamente colta) bensì il coraggio più pieno di altro livello di visioni. Intendo quella cosa che oggi spesso appare esclusa dalla poesia e che qui invece preme, si aggira, quasi forza fantasma. Chiamiamola metafisica? ovvero una lettura del bene, del male, del dolore e del piacere, del vivere e morire, che non siano ridotti a piccoli fatterelli biografici da descrivere con finezza psicologica. E se ne avverto la presenza sottotraccia, ma ancora tenuta a bada, ammansita per così dire, come di una faccenda troppo grande, è comunque per la sua inevitabilità in una poesia così forte e bella come quella di questo libro. Che nonostante divergenze e qualche piccola caduta, si pone - ed è questo l'importante - sulla scia della grande poesia metafisica del Novecento italiano e di quella recente. Non a caso tra i versi centrali come sunto del libro valgano questi:
"un'estate sola e ancora non sapere
se ci salva o se ci condanna"
E dunque possono esser disturbati i nomi dei grandi come Montale, Ungaretti, Luzi, Caproni e dei fratelli maggiori riconosciuti e riconoscibili nel testo, da Riccardi a Fiori. Perché anche la migliore poesia apparentemente "antimetafisica" diviene metafisica per forza della poesia medesima. E la Corbetta deve decidere se intraprendere la via di una poesia del genere, o ritirarsi, come molti fanno, nelle ridotte di psicologismi esibiti quando non stancamente ironici. Gli indizi e anche più di soli indizi fanno ben sperare.
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