di Lorenzo Catania
L’Italia, patria dei campanilismi, anche sportivi, era estranea al poeta Eugenio Montale che, interrogato su quale squadra di calcio tifasse, rispondeva: “Non tifo per nessuna squadra. Non ho mai visto un incontro di calcio e sono assolutamente contrario ad ogni forma di campanilismo, ivi compreso quello sportivo”. Sebbene questa risposta rispecchi il temperamento del poeta degli Ossi di seppia, lo scrittore Luciano Bianciardi, dalle pagine del Guerin Sportivo, dove teneva una rubrica di posta con i lettori, gli dava del bugiardo: “Montale è un enorme bugiardo: non è vero che non abbia mai veduto un incontro di calcio, e che sia contrario a ogni forma di campanilismo. Guarda la partita, alla televisione, tutte le domeniche, e aspetta con ansia il risultato del Genoa, perché è tifoso genoano incallito”. Non era tifoso incallito Umberto Saba, autore delle Cinque poesie per il gioco del calcio, andato per caso e per curiosità allo stadio, attratto dal tifo per la squadra della sua città, la Triestina, che negli anni Trenta del Novecento giocava e si difendeva bene nel campionato di serie A. In Storia e cronistoria del Canzoniere, Saba racconta che nell’autunno del 1933 diventa tifoso grazie a un giovane amico che una domenica gli cede il biglietto per assistere alla partita “fra la potentissima Ambrosiana - così è ribattezzata l’Inter pochi anni dopo l’avvento del fascismo, perché la parola Internazionale non piace al regime - e la vacillante Triestina”, che si conclude con un pareggio senza reti. Quel giorno Saba, quando vede i giocatori della squadra cittadina uscire di corsa nel campo, si lascia contagiare subito dalla passione sportiva, dettata dalla corrispondenza fra l’entusiasmo del pubblico sugli spalti e gli “eroi” nel rettangolo verde: “Di corsa usciti in mezzo al campo, date / prima il saluto alle tribune. Poi, / quello che nasce poi / che all’altra parte vi volgete, a quella / che più nera s’accalca, non è cosa / da dirsi, non è cosa ch’abbia un nome”. Lo spettacolo della folla, gli umori e le reazioni che esibisce sulle gradinate, speculare a quello che si svolge sul campo di gioco, offre al poeta l’occasione per accostarsi a una realtà semplice e vitale, di cui sa riprodurre con narrazione epica figure e gesti, che lo aiuta a uscire temporaneamente dalla condizione esistenziale dell’escluso, a essere “come tutti / gli uomini di tutti / i giorni”: “Anch’io tra i molti vi saluto, rosso / alabardati, /sputati / dalla terra natìa, da tutto un popolo / amati. // Trepido seguo il vostro gioco. / [...] Le angosce, / che imbiancano i capelli all’improvviso, / sono da voi sì lontane!” A differenza di Saba che a cinquant’anni diventa “tifoso” un po’ per caso, il poeta Vittorio Sereni fin da giovane è un assiduo frequentatore della Civica Arena, e poi dello stadio di San Siro. Un interista “perso”, al punto di stare fisicamente male per la propria squadra ed essere costretto “per viltà” a disertare il derby dopo un micidiale 4 a 4 del 6 febbraio 1949. Come Saba, Sereni è affascinato dal gioco del calcio inteso come festa popolare dotata di un senso che va oltre il significato sportivo. Spettacolo vibrante di colori e di suoni, come quello che lo spinge a raccontare nella poesia Domenica sportiva una sfida a San Siro tra l’Inter e la Juventus: “Il verde è sommerso in neroazzurri. / Ma le zebre venute da Piemonte /sormontano riscosse a un hallalì / squillato dietro barriere di folla. / Ne fanno un rame bianconero. / La passione fiorisce fazzoletti / di colore sui petti delle donne. / Giro di meriggio canoro, / ti spezza un trillo estremo. / A porte chiuse sei silenzio d’echi / nella pioggia che tutto cancella”. Sfida che procura al poeta, aperto alla vita, momenti di gioia che si oppongono alla negatività della storia. Ma quando l’incanto di suoni e di colori viene spezzato dal fischio finale dell’arbitro, chiosa Sereni nello scritto Il fantasma nerazzurro del 1964, il divertimento cede al malumore della festa finita e “un senso amaro di vacuità e quasi di rimorso” invade l’animo degli spettatori che svuotano le gradinate, sicché “l’enorme catino ormai silenzioso è l’immagine stessa dello sperpero del tempo”. E tuttavia, scrive ancora il poeta, “Non credo che esista un altro spettacolo sportivo capace, come questo, di offrire un riscontro alla varietà dell’esistenza, di specchiarla o piuttosto rappresentarla nei suoi andirivieni, nei suoi imprevisti, nei suoi rovesciamenti e contraccolpi; e persino nelle sue stasi e ripetizioni; al limite nella sua monotonia”. Spesso nel “gruppetto di interisti scelti”, guidato da Sereni, che nelle domeniche degli anni Settanta si reca allo stadio, ci sono il musicista Gino Negri e i poeti Giovanni Raboni e Maurizio Cucchi. Quest’ultimo, ispirato dalla squadra del cuore, scrive i versi della poesia intitolata “53”, dove l’inizio della passione calcistica, vissuta dall’autore-bambino come un apprendistato alla vita, e il ricordo dei suoi idoli calcistici (il portiere Giorgio Ghezzi e gli attaccanti Lennart Skoglund, Stefano Nyers e Benito Lorenzi) si mescolano all’amore-nostalgia per il padre suicida: “L’uomo era ancora giovane e indossava /un soprabito grigio molto fine. / Teneva la mano di un bambino / silenzioso e felice. / Il campo era la quiete e l’avventura, / c’erano il kamikaze, il Nacka, l’apolide e Veleno. / Era la primavera del ’53, / l’inizio della mia memoria. / Luigi Cucchi/ era l’immenso orgoglio del mio cuore, / ma forse lui non lo sapeva”.