I “Dialoghi con Amin” di Giovanni Ibello, premiati dal LericiPea 2023

di Fabio Barone

Giovanni Ibello, Dialoghi con Amin, Crocetti Editore, 2022 - Vincitore del Premio LericiPea edito 2023

Chi è Amin, questo nome proprio di persona sussurrato a Ibello dalla cultura araba? Sarebbe troppo facile rispondere che Amin è l’alter-ego dello scrittore, un personaggio di fantasia al quale lui si rivolge per sondare le proprie affezioni, di cui comunque il libro è testimone. La figura di Amin pare piuttosto essere — in accordo con l’etimologia del nome che pare coincida con il vocabolo arabo amin, dal significato di persona «sincera», «veritiera» — il suono del desiderio del poeta di andare incontro alle sfuggenti tracce della verità esistenziale che lo abita. Una poesia su tutte, contenuta nella seconda parte del libro che ha titolo “Teorema dei roghi”, sembra sostenere questa ipotesi:

 

Torno allo stato embrionale della vita
nel sonno ibrido del feto,
dove un diagramma di materia nuova
riproduce fedelmente
il calco delle ossa
la nomenclatura delle vene
e un incavo d’ali nelle scapole.
Questa è la divinazione dei corpi.[1]

 

È innegabile da questi passaggi l’evidenza del pensiero platonico e del senso che lui attribuiva alla parola daimon, il quale non è semplicemente l’anima di un essere umano caduta in un corpo, quanto una ‘presenza esteriore’ che funge da custode e da guida affinché l’anima legata a quel daimon non «de-liri dal cammino inalterabile» cui è «intessuta»[2]. La parola ‘ispirazione’, come potremmo chiamare oggi quella summenzionata misteriosa guida, non rende abbastanza bene la portata del termine platonico, di cui già Socrate fece uso prima che il suo allievo se ne appropriasse, perciò, nel trattare di questo Dialoghi con Amin — recente vincitore del Premio LericiPea 2023 nella sezione “Edito” — si continuerà ad usare l’impronta del termine greco, che meglio si confà alle pagine del libro di Ibello.

Amin, quindi, è innanzitutto la parola evocata da una dimensione che pronuncia e prefigura il destino di chi la dice, non a caso il verso in esergo che precede la prima parte del libro recita: «Alla poesia, che mi farà solo», nella pagina successiva, invece, a sottotitolo della prima sezione del libro “Yucatan”, Ibello lascia una traccia che suggella il verso precedente: «La poesia è un lunghissimo addio». Una smagliante eco rilkiana o una comune intuizione? «Chi non sedette trepido dinanzi al sipario del suo cuore?/ E poi si aprì: lo scenario era congedo»[3]. Ma andiamo avanti. C’è un’altra dimensione pronunciata e sofferta nei dialoghi di Ibello con Amin, quella dell’amore: «Un debole fiammato/ l’umore dell’alba sulle gru./ Belve cadenti/ questo è il solo nostro arsenale:/ il daimon dello spreco/ stelle allucinate/ frammenti di temporale./ Amin, è quasi giorno,/ ecco l’ignota rovina./ Oltre la vetrata/ flagelli di margherite:/ l’amore è la mia tirannia»[4]. L’amore vissuto come un trasporto tirannico, di nuovo Platone, le sue manìe, là dove Eros è la più nobile e più potente ma anche la più violenta. Di questa forza è puntellato sottotraccia l’intero libro, la sensazione sembra quella che sia nato proprio dalle rovine di un incontro amoroso nel quale però, Ibello, ha intrecciato una spasmodica ricerca di Dio intravisto nel genio calcistico di Diego Armando Maradona, personaggio nel quale hanno convissuto fino alla scomparsa quelli che Freud chiamava impulso di vita e impulso di morte, Eros e Thanatos, così in Ibello:

 

C’era l’immagine di Maradona
sopra un muro di cemento
ma l’arco degli occhi era sporcato
da brandelli di manifesti mortuari:
oscillavano nel vento
mentre un odore di marijuana
si diramava oltre le case popolari.
Maradona era solo contro gli inglesi,
l’anatema del numero dieci.
Con una mano cercava la palla
con l’altra stringeva nel pugno
una radice di gramigna
che sporgeva da una crepa,
fino a quando una donna
decise di estirparla
con un gesto solo, risoluto, che diceva:
L’amore perduto non ritorna”.[5]

 

Come ha poi sottolineato Milo De Angelis nell’introduzione a questo libro, è la solitudine a regnare sovrana nelle pagine dei Dialoghi con Amin, una solitudine che è un «assillo senza pace di aurora»[6] contro la quale però Ibello combatte una guerra portentosa, facendo del corpo «la misura del tremendo»[7], il suo trampolino per un tuffo nella notte dell’esistenza, rischiarata appena da qualche «forma minima» di «silenzio»[8].

 

[…]

Avrei perdonato mia madre
se non fossi nato per amore.[9]

 
[1] Giovanni Ibello, Dialoghi con Amin, Crocetti Editore, 2022, p. 39
[2] Massimo Cacciari, L’Angelo necessario, Adelphi Edizioni, Milano 1986, p. 61
[3] Elegie Duinesi in Rainer Maria Rilke, Poesie 1907-1926, Giulio Einaudi editore, Torino 2014, p. 295
[4] Giovanni Ibello, Dialoghi con Amin, Crocetti Editore, 2022, p. 17
[5] Ivi, p. 52
[6] Ivi, p. 64
[7] Ivi, p. 54
[8] Ivi, p. 68
[9] Ibid.

Lascia un commento