Davide Rondoni
di Daniele Giustolisi
Il recente editoriale proposto da Poesia del nostro tempo titolato Dentro la frattura propone alcuni spunti sul rapporto “fratturato” scuola-cultura. L’articolo solleva giustamente ombre e interrogativi sull’avventura della conoscenza dei nostri studenti nelle scuole, in una modalità che però, a mio parere, insiste forse troppo emozionalmente e sommariamente sugli effetti e non razionalmente sulle cause.
Da parte mia, raccolgo e condivido qui, in forma di appunti veloci e sparsi, alcune considerazioni frutto del mio lavoro di giornalista, autore, docente a progetto e promotore di iniziative culturali nelle scuole, svolto a stretto contatto con docenti e studenti di differente ordine e grado.
Preso atto dello spirito “corsaro” dell’editoriale, mi chiedo, in primis, se i toni apocalittici utilizzati non ci restituiscano un’immagine oltremodo severa e ingiusta dei nostri studenti. Certo, “non è per loro demerito” che vi è la frattura, si dice. Eppure: “ho lasciato il concetto di tragico e sono tornato su territori conosciuti: l’Iliade. Lì si sono illuminati, conoscevano la storia, era nel programma, conoscevano l’anima di personaggi prevedibili, e giocare con quei pupazzetti è stato facile. Da lì i collegamenti a Sofocle ed Euripide e per finire la grande rottura di cazzo: la poesia contemporanea”. Oppure: “I ragazzi che ho incontrato, come la maggior parte degli studenti italiani, non riescono a distinguere un quadro di Caravaggio, la prosa di Calvino, una terzina dantesca. Quando lo sanno fare, quando ne hanno la tecnica, non riescono a portarla fuori dall’ambito scolastico”.
Mi chiedo se una manciata di incontri e di anni di insegnamento (ma esiste poi un tempo giusto?), possano bastare a ricavare sentenze così totali e generalizzate sugli studenti. Certo, i problemi ci sono, enormi, ma io penso che occorra guardare altrove, andare alla radice. Perché nel quadro tracciato nell’editoriale poco o nulla si dice su chi forma questi studenti.
A mio parere, infatti, al centro della frattura ci sono soprattutto loro, gli insegnanti, rispetto ai quali il sistema-istruzione mostra da anni profonde aporie e insofferenze nella scelta e nella formazione. Intendo io quel lavoro-vocazione, quel lavoro-missionario ridotto sempre più, nell’immaginario (e nella sostanza), a “facile” ripiego da posto fisso alle poste.
Credo infatti che la questione centrale sia un terribile vuoto di seria formazione iniziale per i docenti di scuola secondaria (a differenza di quanto avviene negli altri paesi europei), congedate le esperienze delle SISS e dei TFA. Né tantomeno possono bastare i famigerati (e ipocriti) 24 CFU a buon mercato o le recenti ipotesi avvilenti di percorsi fai-da-te.
Solo alcune domande. Cosa ne resta di una seria preparazione in psicologia dei nostri docenti? Cosa si conosce, in profondità, della didattica e cosa dell’antropologia o delle neuroscienze, in rapporto all’emotività e all’apprendimento dei ragazzi? I futuri insegnanti che approccio avranno al testo letterario? Ma, soprattutto, in che modo verrà messo al centro dell’insegnamento finalmente il lettore, cioè lo studente? (Una necessità, quest’ultima, che una seria didattica per competenze, sardonicamente citata nell’editoriale, già promuove e struttura secondo obiettivi di contestualizzazione, analisi, comprensione e interpretazione del testo).
E poi ancora. L’alta percentuale di docenti non specializzati sul sostegno (nel 2021, secondo Il Sole 24 ore, sono circa la metà su 200 mila complessivi), che domande ci spinge a formulare sulla qualità e credibilità della loro “missione” e sul rispetto dei ragazzi assistiti? Oppure, la stragrande maggioranza di docenti femminili nelle scuole statali (l’82,9% dei 716.483 docenti a tempo indeterminato nella scuola statale, secondo i dati del ministero dell’Istruzione per l'anno scolastico 2019/2020), potrebbe sollevare alcune scomode questioni di genere? Cosa dire poi, a proposito, dei mortificanti stipendi? E dei cosiddetti precari storici che non riescono a trovare una posizione stabile e dignitosa, a discapito della continuità didattica nelle classi? Chi valuta poi, e con quali parametri e strumenti, il lavoro degli insegnanti?
Credo che queste debbano essere alcune questioni radicali e preliminari a ogni giudizio di valore sulla “cultura” dei nostri ragazzi.
Nell’editoriale ci si rammarica poi della scarsa confidenza degli studenti di liceo con alcuni dei nomi più istituzionalizzati e validi della poesia dei nostri giorni. Mi chiedo se questo davvero aggiunga o tolga realmente qualcosa al cuore della formazione di un ragazzo di 15 o 18 anni. A questo livello, quanto siamo realmente convinti che la conoscenza di un Milo De Angelis o di un Dario Bellezza assuma valore pregiudiziale e paradigmatico nel definire la cultura di un adolescente e, cosa più importante, a decretare il successo dell’insegnamento che, indipendentemente dai nomi degli autori, a quell’età, dovrebbe puntare ad accendere negli alunni la luce sul mondo? Ma, mi chiedo, se con i viaggi di Enea e di Ulisse, se con “Il passero solitario” di Leopardi o “L’addio ai monti” di Manzoni si riesce a consegnare ai nostri ragazzi un piccolo faro contro l’angoscia e il deserto che il nostro tempo offre loro, invece che con T.S. Eliot o Elio Pecora, a quell’età, mi chiedo, non è già un piccolo miracolo?
Io credo che per chi vorrà (ma non è stato così anche per noi?) ci sarà tempo e modo per costruire e affinare la propria biblioteca di autori e letture.
L’editoriale conclude poi con una domanda posta sul “futuro della poesia”. Credo che pensare, in termini di futuro e quindi di destino, la poesia vuol dire considerarla secondo una prospettiva teleologica, cioè secondo una “storia dei fini”, una storia della loro definizione o della loro identificazione categorica, preminentemente nei nomi e nei testi. Questo vuol dire essenzialmente cristallizzare qualcosa, definire un campo che stabilisce arbitrariamente cosa e chi sia legittimato o no a percorrerlo. Io penso che questa sia una prerogativa (molto parziale peraltro) che attiene più al lavoro storico e critico che non all’insegnamento nelle scuole.
Ciò che dovrebbe contare a scuola, a mio parere, è invece proprio quel “lavoro culturale” indicato nell’editoriale, che sappia innescare nei ragazzi – per come dicevo prima – una qualche apertura di senso sulla loro vita, indipendentemente che si legga l’Iliade, lo Zibaldone o una poesia di Bigongiari (ma poi, chi impedisce all’insegnante, oggi come ieri, di poter leggere in classe una poesia di Bigongiari o di leggere comparativamente magari le poesie “al fratello” di Catullo, Foscolo e Caproni?).
Io credo che la poesia nelle nostre scuole non chieda l’affanno del futuro ma di accendere lo sguardo sul presente della vita, con la libertà e la discrezione che le appartengono, senza attese né pretese.
Concludo, a proposito, creando un ponte con la “scarsa porosità” scuola-mondo riportata nell’editoriale. Penso che occorra avere fede nel mistero dello studente e quindi nel seme della conoscenza che lo accompagnerà nella sua strada, che è altra cosa rispetto al sapere. Il sapere esige la prestazione e il riconoscimento immediato, ma la conoscenza lavora e matura nei campi lunghi e oscuri del tempo intimo dei nostri ragazzi. Il seme che gettiamo oggi in loro, fosse anche solo una parola o un verso, ha una gestazione che passa a volte anche per oblii, dimenticanze, erranze, conflitti, per poi magari maturare dopo anni, ritornando sulla scena del mondo con nuovi destini e nuove fioriture di senso. Io credo sia questo il cuore segreto della conoscenza e dell’insegnamento, di cui l’essenza silenziosa e paziente della poesia ci offre potente e umile esempio.
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