di Maria Chiara Arduini
Parliamo del margine.
Pensiamo se nella nostra vita sappiamo definire ciò che è marginale e ciò che è centrale. Pensiamo se abbiamo il senso della misura, se sappiamo misurare dov’è il centro e dov’è il margine o se a un certo punto i due si confondono e non sappiamo più ritrovare il vero centro.
Credo che se noi pensassimo a cosa c’è fisicamente al margine del nostro universo, ci verrebbe in mente solo un vuoto nero, il nulla.
Non era così per i medioevali, non era così per Dante. L’universo di Dante era un universo dove era ben definito il centro - la terra - e il margine - l’empireo. Dunque per i medioevali la terra si trovava al centro dell’universo, mentre ai margini c’era Dio. I medioevali si pensavano geograficamente al centro dell’universo, ma marginali per quel che riguarda il senso. Il senso del mondo, cioè Dio, stava al margine. Quindi la terra non era altro che il posto più lontano da Dio, dalla perfezione e dall’immortalità.
L’uomo si definiva al centro perché si sentiva marginale e perché osservava che nel mondo tutto è fugace ed effimero, tutto dura poco. Per questo sarebbe la disperazione senza un margine dove regna l’immortalità, e per questo è capace di dare senso al centro.
Oggi penso che per noi sia il contrario. Siamo in un mondo dove per le scoperte scientifiche siamo coscienti di non essere al centro dell’universo, ma dove ognuno sente di essere al centro del senso. O meglio: sentiamo di essere nell’unico luogo dove si può trovare un senso.
Oppure, addirittura, sentiamo marginale la ricerca di un senso.
Per parlare del margine bisogna analizzare due figure che nella loro vita hanno deciso o hanno dovuto stare ai margini.
Sofocle ha sempre avuto questa passione per i marginali, gli esclusi. Edipo, Antigone, Elettra, Filottete sono tutte persone che per un motivo o per l’altro sono stati costretti a stare ai margini.
Elettra è la donna che “soffre senza misura”. Ma cosa vuol dire che una persona soffre senza misura? Soffrire senza misura significa soffrire di un dolore terribile, perché è un dolore che non ha né centro né margine. Soffrire senza misura vuol dire soffrire di qualcosa che va oltre l’uomo, poiché l’uomo, da sempre, è l’essere della misura, è l’essere che per stare al mondo ha bisogna di dare allo spazio un centro e un margine. Dunque la sofferenza di Elettra non ha margini, non ha orizzonti, è come dire che è un dolore infinito.
(apo ton metrion: oltre il misurato, oltre i confini)
Dunque vediamo che Elettra non solo è emarginata, ma addirittura soffre del dolore più terribile di cui un uomo può soffrire.
Elettra è emarginata dalla madre Clitemnestra proprio per questa sua sofferenza che va oltre i limiti dell’umano. Ed Elettra (come in fondo anche Antigone) soffre perché ciò che per lei è centrale è marginale per gli altri. Per lei centrale è la morte del padre Agamennone, ucciso proprio dalla moglie Clitemnestra. Ma non è lo stesso centro della sorella di Elettra: per Crisotemi centrale è l’obbedienza, il sapersi sottomettere al potere. Per Clitemnestra centrale nella vita è il fatto che il marito Agamennone ha ucciso, prima di partire per Troia, la figlia Ifigenia (e per questo stesso motivo poi la donna ucciderà il marito). Per Egisto il centro è un altro ancora, quello di rivendicare i torti subiti dal padre da parte di Atreo.
Dunque in questa tragedia il problema è che i personaggi non si capiscono, perché pongono come marginale ciò che è centrale per l’altro. Gli unici due personaggi che possono capirsi sono Elettra ed Oreste, perché condividono lo stesso centro e lo stesso margine. “Sono il solo qui trafitto dai tuoi mali”, dirà Oreste ad Elettra. Per entrambi centrale è l’uccisione della madre anche se per due motivi diversi: per Elettra conta la pura vendetta, per Oreste si tratta di obbedire al dio Apollo.
Il problema tra gli uomini è molto spesso quello di non avere un centro e un margine comune, e di conseguenza trovarsi nell’impossibilità di comunicare.
La questione dunque sta qui: esiste nel mondo un centro in cui tutti gli uomini possono riconoscersi?
Un’altra figura di cui vorrei parlare, sempre descritta da Sofocle, è l’emarginato Filottete.
La sua emarginazione non è voluta, è obbligata. Egli infatti, dopo essere stato morso da un serpente velenoso, viene abbandonato sull’ isola di Lemno, per i suoi continui lamenti e per il cattivo odore che produceva la sua ferita.
Rimane emarginato per anni su quest’isola e accumula, in sé, una grandissima cattiveria e un odio smisurato nei confronti, soprattutto, di Odisseo. Lo stesso che poi sarà incaricato di andare a riprenderlo: senza Filottete, hanno deciso gli dèi, la guerra di Troia non può essere vinta dagli Achei. Vediamo dunque che l’uomo che viene emarginato è lo stesso che gli dèi considerano centrale per la conquista di Troia. Non sarà che forse la divinità si mostra proprio in ciò che a noi appare marginale? Non sarà che forse proprio nelle “brevi contingenze”, come diceva Dante, il divino arriva sulla terra?
La divinità decide che colui che sta al margine deve essere il centro della vittoria.
Guardiamo, per finire, Van Gogh. Possiamo dire che anche Van Gogh sia un uomo emarginato. Ma emarginato volontariamente, sempre per il fatto che nella sua vita non era centrale quello che era centrale nella vita degli altri uomini. Guardando molti dei quadri di Van Gogh si vede che i margini delle sue figure sono molto sottolineati. Ripassando e mettendo in risalto i margini, riusciva a potenziare al massimo l’espressione nei volti.
Perché è definendo in modo chiaro il margine che poi acquista senso il centro.
E Van Gogh lo sapeva molto bene. Perché è sapendo fare i conti anche con la morte, che ci appare così marginale, che poi anche la vita trova un senso.
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