Davide Rondoni
Il Sole per Angelo
Spesso si sente dire da ragazzi o platee pur pieni di buone intenzioni: «Ma la poesia non si capisce!» E per questo la tralasciano. Sono vittime di una complicazione (e in parte certo della loro pigrizia). La complicazione di aver noi poeti – e i professori, e i critici – voluto intorbidire le acque perché sembrassero profonde. Insomma, abbiamo spacciato tanta oscurità posticcia tanta complicazione inutile che ormai molti ragazzi non han più voglia o energia di discernere cosa è poesia densa in quanto profonda da parolame complicato in quanto artificioso.
E buttan via tutto. Colpa ne hanno anche gli editori scolastici con i loro libri-tomba. Ma d'altra parte c'è anche un vizio più profondo nell'obiezione: «La poesia non si capisce». Ad essa rispondo sempre così: «Perché, scusi, lei la sua donna la capisce? O i suoi figli? O la sua morosa ? O, che so, la guerra?» E tutti mormorano dei no, sommessi ma fatali. Come se si accettasse di non capire un granché di quasi nulla però lei, la poesia, la si vuole capire. Il vizio sta nell'intendere il "capire" come un delimitare, far fuori i problemi, portare tutto alla propria misura. Mentre le cose importanti della vita – una persona amata, un amico, una poesia – non si "delimitano" non si "capiscono", ma si comprendono: si prendono con sé in un rapporto che tende all'infinito. Un rapporto lungo il quale l'altro (amico o testo che sia), in quanto fenomeno umano dotato di qualcosa di smisurato dentro, continua a rilasciare novità e scoperte. Pensavo queste cose leggendo la densa prosa poetica di uno strano magnetico libro, Quadreria dei poeti passanti. Lo ha scritto un poeta siciliano, Angelo Scandurra, edito da Bompiani qualche mese fa (oh, reiniziasse da Bompiani una nuova più forte collana di poesia...). Vi si trovano brani come «Il nulla incantesimo. Nello stesso fragore, affermazione verace, palpabile per l'aggregante incollocabilità. Dov'è sconfinata mia nonna...». Scrittura che agglomera visioni. E non dà pace. Una specie di enciclopedia cercata nel profondo, tra barocco folle e nudità abbagliante di pensiero.
Lì le cose si fanno oscure e inafferrabili ma vivissime. Come quando si bisbiglia tra amanti.
O si guarda nel viso più a lungo un amico.
Davide Rondoni
Il segreto di Angelo Scandurra
Soffrire il mondo. Tenerlo dentro al proprio corpo per farlo brillare. Gioire e commuoversi con la baldanza di chi sa ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è menzogna e spaventa. Angelo ci portava dentro la sua grande allegria e questa sua lotta che non lo faceva stare fermo, che regolava i suoi respiri, le sue paure, il suo ascolto e le parole, e gli infuocava le tempie. Ha vissuto la sua “passione”, avveratasi negli ultimi due mesi della sua vita, quando dolori indicibili gli foravano la schiena, gli toglievano il poco sonno e stremavano la voce, gli piegavano le spalle forti e il corpo slanciato che era in continuo movimento, sempre in corsa, e i suoi occhi senza freni se non l’estraneità degli altri, la sordità anche di noi amici, la solitudine inestinguibile in cui ciascuno versa. Per questo cercava conforto negli altri e infine, sempre più spesso, nel sentire al telefono chi gli potesse dire: «sì, Angelo, anch’io sento questo peso sul petto, anche a me manca l’aria e non vedo più nulla, anch’io gioisco per chi si ricorda e per chi ha memoria per quello che sei, per quello che hai fatto».
Anch’io sono colmo di gratitudine per aver incontrato Angelo che era capace di interrompere la stampa, guadagnare le ire degli stampatori, perdere soldi. Quando si accorgeva di un refuso, anche minimo, non poteva fare finta di niente e girare quegli occhi accesi: in quell’istante, evidentemente, riconosceva una precisa chiamata al suo nome, alla dignità e alla verità di sé, a cui non aveva paura di sacrificare tutto il resto. Fedele alla vastità del suo cuore, pure nella dissonanza, ogni suo gesto era espressione di questa fedeltà. Saper mettere in ordine le cose, nell’ordine della loro importanza, rendeva Angelo un uomo libero e capace di meraviglia, di passione per il mondo: nella sua meraviglia c’era spazio per la disperazione per «la ferita d’esistere». Lo sussurra Vasco, il personaggio dei suoi Appunti per un colloquio forzato, alla donna che gli intride l’animo: «…che la nostra ferita di esistere sia colma di baci suadenti… Ma tu resti guerriera imperterrita sulla groppa del cavallo di marmo…perché vuoi farmi poggiare i piedi per terra? Perché vuoi tramutarmi in bersaglio per i fulmini?». Perché ogni suo ingresso era un evento, perché la sua presenza modificava lo spazio e l’aria attorno? Perché esigeva «un giorno di simpatia totale», una fratellanza tenera e autentica nella consapevolezza di dover diventare polvere. In chi incrociava i suoi occhi cercava, come ha detto una volta a proposito della poesia, «un colpo d’ala, un cazzotto nello stomaco». Quello dei suoi fratelli e compagni di viaggio, moltissimi da non poterli contare (ma almeno Lisi, Rondoni e Condorelli tra i poeti, insieme ai docenti, ai pittori, agli autori…). E perché chi lo sentiva parlare magari non ricordava esattamente, poi, le sue parole larghe , ordinate eppure caotiche e straripanti, ma con chiarezza ancora maggiore i suoi occhi e le sue mani? Perché erano esattamente la stessa cosa.
Sarà stata una fatica enorme, quella che gli aveva senz’altro suggerito i due versi, tremendi e aperti, in chiusura della Quadreria dei poeti passanti: «essere voce / è pena surreale». Una grande fatica, ma condotta con la sua grazia di uomo di teatro, che non scende mai davvero dal palcoscenico perché è lì che ogni gesto può accendersi di senso, obbedisce a uno scopo, si incardina in un orizzonte, cerca un fine, lo insegue senza posa, senza maschera. Un impegno radicale, esigente: così per la grammatura della carta dei suoi libri, e per i colori della linea delle farfalle in copertina, che una volta stampati non si modificassero. Ed era il suo orgoglio la conduzione magica e piratesca di quella collana, mossa per il solo amore dei “libri degli altri”, ciascuno voluto e accompagnato fino alla stampa, non in digitale, non con la colla come quei libracci che si squadernano e si rovinano nelle mani, a volte illeggibili, realizzati in serie, senza amore e per profitto, per il soldo. Ma soprattutto la sua poesia, il culmine del suo “colloquio forzato”, priva di ricercatezza eppure straordinariamente còlta, e al tempo stesso popolare, dai contorni nitidi eppure sempre zoppicata, spiazzante, in stordimento.
Era con noi quando è nato il Centro di poesia e tutto vibrava di promessa e attesa. Insieme ad altri poeti già grandi ci aveva sostenuto e accompagnato. A una delle prime riunioni organizzative sedeva in silenzio e ci guardava litigare su chissà cosa, con la nostra violenza meno che adolescenziale, bambinesca, crudele. Non è più venuto a quelle riunioni, anche se ogni dissidio poi veniva superato, anche se si ritrovava presto la rotta e la concordia di amici. Decise di offrirci la sua amicizia più gratuita e disinteressata e la spostò ad altre occasioni, ad altre telefonate, ai ritrovi nel suo ristorante di fiducia, il mitico Casal Rosato di Valverde, l’unico in cui si potesse davvero mangiare con lui. Ed erano le sere in cui alla fine spostavamo le sedie ringraziando Dio per il dono di quelle ore, e risalivamo in macchina con la chiara percezione di aver partecipato immeritatamente a un sussulto, un’intensificazione della vita, all’esplosione di intelligenza, bellezza e verità che avveniva in quell’uomo. E poi guidavamo fino a Catania già con il rimpianto di non avere tenuto traccia delle sue parole, dei giudizi e delle tracce che ci erano state offerte, e con la paura sottile che tutto quello straripamento del cuore era davvero, a quel punto, affidato soltanto alla nostra povera memoria, alla nostra ancora più povera incomprensione.
Angelo ci chiedeva ogni volta di non tradire noi stessi, finendo per diventare l’ennesimo partito di letterati, l’ennesima chiesa o consorteria o combriccola o cricca invischiata nelle più classiche e ordinarie ma non per questo meno disumane dinamiche di favori, di scambi, di grandi leccate di culo ai potenti. Troppo povera la ricompensa, le briciole offerte dal “mondo culturale”. E nei suoi racconti turbinavano i nomi degli editori e dei critici e dei poeti e dei mestieranti, e poteva raccontare per ore le innumerevoli delusioni, con rabbia e scherno e forse soprattutto con grande dolore, i momenti in cui aveva dovuto sperimentare sulla sua pelle l’altrui grettezza e meschinità. Ma più che questi, erano soprattutto i nomi degli amici, di tutta la “quadreria” di artisti e intellettuali che componevano la trama dei suoi giorni, i suoi maestri, accanto a cui figuravano sua nonna e i vecchi della piazza del paese da cui attingeva la sapienza antica radicata in lui che si slanciava forte e delicato come un mandorlo: «l’arte è una fragilità...», ci aveva detto all’inizio di uno dei laboratori che realizzammo insieme al Centro di Poesia, «…che ci spinge a cercare. È un sacrificio, non un passatempo… L’arte-vita. La vita esige che ognuno trovi dei criteri di fuga, una poesia che resti aperta, come una costa frastagliata con le sue insenature in cui il lettore e l’autore possano entrare. Spesso non si realizza in una sequenza logica, ma attraverso il corpo… Ho un grande terrore del nulla. Sento, vivo la caducità della mia esistenza. Mi aggrappo, ma tutto ciò non mi dà conforto».
Angelo continuava a regalare, e tutti da lui ricevevamo. Vorrei poter dire che io ho, che noi abbiamo imparato dal silenzio attonito che tenne per tutta la riunione, e che abbiamo conservato la sua purezza e lo slancio e l’allegria del suo passo, ma non è così la strada è ancora lunga. Per l’ultima rassegna di cui ci parlò, che avrebbe ospitato musicisti e poeti negli stupendi giardini dell’ineluttabile Casal Rosato, avrebbe rubato a Sciascia il titolo: “La Sicilia, il suo cuore”. Per tutti, non solo per gli addetti ai lavori, ma la gente, il popolo, come sempre aveva fatto. Come la festa che, in una torrida sera estiva, alla fine vide artisti, famiglie e prostitute mangiare in abbondanza generose fette d’anguria tra le stradine del quartiere di san Berillo a Catania. Cose inimmaginabili, impensabili, ma accadute, accadute veramente. La vita che si fa vita, nient’altro, con tutto il suo carico di struggimento che dava ad Angelo, come ci aveva detto lui stesso, «un entusiasmo disperato e disperante». Meglio per noi restare senza di lui: possiamo tornare più facilmente ai pensieri soliti, alla misura solita, potremo sfuggire con più lieta distrazione alla pena dell’essere al mondo, e non cercherà in noi o nelle nostre parole un appiglio, «un tampone alla malinconia». Oppure… oppure possiamo trattenere il segreto della sua esistenza, prendere le sue parole dove accadono (come ha descritto Bufalino) «epifanie struggenti» e «una redenzione possibile»: «una goccia di luna sui vetri, un guizzo di lucertola nell’orto, un sentore di buccia d’arancia che si consuma dentro il braciere…».
Nei tuoi ultimi, segretissimi istanti, hai forse trovato la mano che ogni istante hai invocato quasi timidamente, con un filo di voce… l’ultimo compimento di ogni tuo sforzo, di ogni tuo tentativo, l’unico vero bene. Forse l’hai stretta e ti ha davvero accompagnato le palpebre. Tu poeta cieco, nell’atto unico Titoli senza valore, cercavi ancora l’anello che non tiene, il perdono della vita, un sovvertimento insperato di ogni menzogna:
UOMO CIECO (interviene quasi timidamente, con un filo di voce) Sento dei ragionamenti che fanno venire i brividi. Io sono stato educato alla parsimonia, al risparmio, al rispetto dell’umanità, della natura. Mi hanno insegnato che l’amore è la forza dell’universo. Che il denaro non serve. […] Ho saputo che qui si possono attivare delle operazioni di mercato aperto e siccome ho messo anch’io un gruzzoletto di denaro da parte, frutto di tanti sacrifici, ho una grande necessità che non so se sia ingordigia, se smarrimento, se sensibilità d’animo o rudezza. O, come si suole dire, latente e cocente solitudine. Oppure è il prodigio ingovernabile che mi spinge a mangiare l’oscurità? (come se chiedesse a se stesso) Allora, quali operazioni accessorie bisogna accendere per comprare una mano? …Perché io voglio comprare una mano, una mano capace di carezze, una mano che mi si infili tra i capelli, che mi delinei il profilo, che sappia prendere la mia mano per attraversare insieme la strada. Una mano che sappia dare una consistenza alle mie carni, che sia loro di conforto. Una mano da baciare. Una mano che accompagni le palpebre quando sarà il momento.
Pietro Cagni
È già nella luce. Nelle foglie attraversate dal canto. Nel pensiero appassito. In tutte le occasioni in cui la fenditura diventa sguardo. Sul piedistallo, con le caviglie logorate da baci. Ma lo sforzo dell’immaginazione allarga i segreti. Quasi a socchiudere l’intima eleganza delle movenze.
(Quadreria dei poeti passanti, Bompiani, 2009)
Angelo Scandurra incarnava la poesia nella vita con una grazia genuina d’altri tempi. Era un paladino visionario con il dono della concretezza. Soleva ripetere ai giovani poeti che lo attorniavano: «i poeti volano coi piedi per terra», mentre lui, aggrappato al ventre della vita, era “guizzo di sole dentro il sole”, alla ricerca dell’impossibile confine.
Aveva la capacità incantatrice dell’affabulatore indomito e candido. Non accettava le storture e le brutture del mondo contro le quali si ergeva fiero e vulcanico: «un San Francesco della poesia assolutamente ed aspramente laica», come lo ritrasse splendidamente Luca Canali, ma sempre con “l’intima eleganza delle movenze” di un danzatore di parole in una quadreria.
Editore raffinatissimo e passionale: i suoi pregiati libri sono testimonianza civile ed etica di una vita che si fa visione nel momento stesso in cui disattende l’oblio.
È stato il mio maestro, la mia guida, un vero padre d’elezione, capace di insegnarmi con il suo entusiasmo e la sua nobiltà d’animo come l’uom s’etterna. Sono suo debitore, se la poesia è entrata nella mia vita e se provo ora a scrivere versi: trovai, da bambino, nella libreria dei miei genitori, una sua raccolta poetica, dal titolo Urlo di gabbiani (Biancamartina editrice, 1975), e rimasi affascinato da questa poesia che rivelava, già da allora, la sua tempra pura e combattiva, la sua propensione al bene e alla speranza, la sua viscerale ribellione contro qualsiasi ingiustizia:
L’alba che esplode
in ogni ritorno di spiagge
insegue il tramonto.
Il tuo volto,
intagliato di alghe,
ha intravvisto il veliero
dei pirati
arenarsi nell’isola
dei serpenti.
Le sirene non hanno
più musica nelle carni.
Nelle strade di neve
solo orme di lupi.
Nell’arcobaleno degli occhi
vampate di nostalgia.
Nell’oasi della speranza
sventola una bandiera
che ha conosciuto
il maestrale e lo scirocco.
“Non fiori ma opere di bene”
L’ho sempre immaginato come una creatura di porcellana, fragile ed indifesa sì, ma che resiste strenuamente agli urti incessanti della realtà, senza infrangersi, e che si consegna “come alito di concerti alla piega del vento”.
Ed ora ti immagino, caro Angelo, scintilla errante nel Tutto, come nella poesia L’enorme tempo scrivevi: «Dov’è sconfinata mia nonna, pensiero e azione di energie per novant’anni e poi enorme tempo, vigore di polvere?». Ecco sarai lì, nella luce, con i tuoi girasoli e le tue farfalle.
Angelo Santangelo
Photocredit: lasicilia.it