Me’ patri rissi fèrmati,
lassa stari all’aceddi,
veni cca, venisenti
sta storia.[1]
Ancora una volta il poeta di Cutusìo, Nino De Vita, indossa le vesti del cantastorie per cercare di rendere, tramite i movimenti di una lingua serpente, intrecciata, misteriosa e cangiante, il comico dramma di una vicenda umana.
La sua recente opera, pubblicata accanto ad un’antologia comprendente i versi degli ultimi trent’anni, curata da Silvio Perella ed edita dalla casa editrice messinese Mesogea, è una sorta di novella in versi, dal titolo A ccanciuri Maria[2].
De Vita sceglie la forma, già mostratasi in filigrana nelle sue precedenti raccolte, del poemetto.Se la fabula risulta essere alquanto semplice, è l’intreccio, la tessitura delle diverse voci e dei diversi piani spazio-temporali, a trasferire al lettore l’ingarbugliato movimento dell’avvenimento.
Petru vitti a Maria/ ‘u jornu ra Rumìnica ri Parmi e da quel giorno la ragazza un s’ alluntana ri l’occhi,diviene un pensiero fisso,nel cuore e nella mente: appena ri nne ngagghi/ cc’è una nzinga ri luci/ ‘a penza[3].Lentamente il desiderio si fa sempre più totalizzante ( cchiù azziccusi/ a Petru cci pigghiavànu ‘i cartati)[4],ma, dopo un iniziale consenso sul fidanzamento, il padre della ragazza cambia idea e si misi a mussiari[5].Fu così che il maldestro innamorato decide di progettare la fuga, la fuitina. Ma quella notte qualcosa va storto: Maria si trova dalla nonna e al suo posto Pietro trova la sorella Margherita. Dinanzi alla possibilità che la ragazza possa gridare e il padre prendere ‘a scupetta[6], la decisione estrema: prendere lei a ccanciu ri Maria.
Ciò che traspare dal perdurato silenzio di Margherita, dalla decisione di Pietro e dall’evolversi della vita della stessa Maria, chi passatu ‘u tempu ri còlluri, si maritau cu nnàvutru […] unu ru Dàttulu[7 ],è forse l’esistenza di un fato, di un destino, di qualcosa di imprevedibile e incalcolabile da parte dell’uomo, che ad un certo punto puòsolo chinare il capo e pronunciare, sussurrando, poche labili sillabe: Diu, o Diu meu.
Presente e vivente è la natura, la campagna marsalese, da sempre linfa poetica per De Vita, nonchéru timpuni assulazzatu ri Cutusìu[8].
È una natura che si fa rivelatrice dei pensieri dell’autore e dei personaggi, quasi a mostrarne i moti della mente (nno celu fa mutanzia,/ agghica u’ mmernu e ngagghia/ ‘i cosi tutti nuri)[9], le paure (ra notti, quannu agghica/ Petru [….] p’arruballa/ eu mi misi a cunchiari;/ ru vintazzu chi ciucia, / ‘ a scala chi si portanu/ nne spaddi, ‘u corpu chi/ Petru cafudda nna/ finestra e chidda, lasca,/ si sbarrachia)[10], le perplessità.
La grande maestria letteraria di De Vita è qui attenta a dipingere, non solo la dimensione, nata e tramandata nell’oralità, di lu cuntu, ma soprattutto la dimensione della gestualità, del movimento, ora ironico(scasciau ‘u mussu, avusu/ chi fussi rrisatedda,/ era smanciusaria)[11], ora agitato(‘i manu chi s’avia/ agghiummuniatu ncapu/ ‘u ventri) [12]ora dubbioso, del corpo e della pelle.
Il poeta non rinuncia a concedersi momenti di riflessione letteraria, lasciando trapelare la difficoltà incontrata nella tessitura della narrazione, trasferendo il groviglio dell’umana vicenda, non solo sul piano formale, ma anche e soprattutto su quello lessicale e sintattico. Le parole, le descrizioni, le espressioni, sembrano annodarsi, intrecciarsi come serpenti: ‘u violu avia giummara/ nno mezzu, e lati, irvazza, / mintastru, cuta, spini, / felli: scinnia, rannìa, / nzicchia, turcia, facia / truppicari, sbutari/ ‘u peri [13]
Tale movimento serpentino, della lingua e del paesaggio, sembra ricordare la vicenda di ben altri e più famosi sposi promessi, quell’andirivieni dei monti che apre uno dei capisaldi della nostra letteratura.
Quasi ricalcando l’incipit manzoniano, lo sguardo di De Vita procede dall’alto sulla campagna assulazzata, per scorgere, all’interno del movimento della natura, e quasi a sua immagine, il movimento dell’uomo e dei suoi drammi, poiché, se il nostro cuore è un guazzabuglio, spesso è ‘u ddestinu, / ‘a vita chi mpirugghia. [14]
Carola D’Andrea
note:
[1] Mio padre disse fermati, /lascia perdere gli uccelli,/ vieni qui, vieni a sentire/ questa storia.
[2] In cambio di Maria.
[3] Appena dalle fessure/ entra un poco di luce/ la pensa.
[4] Più insistente/ a Pietro si accendeva il desiderio.
[5] Cominciò a tentennare.
[6] Il fucile.
[7] Passato il tempo dei dispiaceri, si sposò con un altro […] uno di Dattilo.
[8]Altura desolata di Cutusìo.
[9] Nel cielo il tempo muta, / arriva l’inverno e trova/ le cose tutte nude.
[10]Della notte, quando arriva Pietro […] per rubarla/ mi misi a considerare; / del ventaccio che soffia, / della scala che portano/ sulle spalle, il colpo che/ Pietro dà contro la / finestra e questa, fragile, / si spalanca.
[11] Fece una smorfia, come /fosse una risatina, / ed era l’ironia.
[12] Le mani che si era /intrecciate sopra / il ventre.
[13] Il sentiero aveva ciuffi di palma nana / nel messo, ai lati, erbacce, / mentastro, pietre, spine, / ferule: scendeva, ingrandiva, / rimpiccioliva, curvava, faceva /inciampare, distorcere / il piede.
[14] Il destino, / la vita che inganna.