De societate spettacolorum et vanitate poetarum

di Davide Rondoni

Un mio amico poeta dice: "Ormai è andata". Scuote la testa. La poesia, l'arte della parola, a suo avviso, è ormai sputtanata definitivamente dal tritacarne della società dello spettacolo (che propina poesie modeste a Sanremo o spaccia influencer per poeti, con il supino e correo compiacimento di editori avidi e poeti o autoaffermatisi tali vanitosi). Dice: “Ormai è andata”. La confusione nelle teste in effetti è parecchia. E verrebbe da dargli ragione. Ma occorre riflettere ancora per comprendere. Per nutrire la rabbia e l'amore, e perché la prima nutra il secondo.
Tale situazione è figlia a mio avviso di tre fattori, che indico sommariamente.

Primo la necessità insita alla propulsione della società dello spettacolo a divorare ogni terreno, e specialmente il terreno del tabù e del sacro.
Infatti, in quanto espressione più acuta, mobile e inficiante del potere, agente sul gusto e quindi sulla mentalità molto più di quanti fanno manganelli e leggi e parlamenti, la società dello spettacolo mostra la sua vera forza "rendendo tutto se stessa", tutto spettacolo. Il potere ha sempre una tendenza totalitaria, e dunque non può permettersi territori liberi dalla sua influenza. In questo sta la componente demoniaca di ogni potere - economico, politico, clericale, spettacolare che sia. La pretesa della onnipotenza. E perciò deve inglobare ogni cosa, non lasciare nello spazio dell'intangibile, del sacro, del fuori-da-sé nulla. Lo ha fatto con la morte, con il sesso, con Dio, con la politica. E ora tenta di farlo con l'arte, l'altra dimensione fondamentale che connota l'essere umano. E mentre su alcune arti il gioco era più semplice (arti che si ascoltano, si vedono...) con la poesia occorreva affinare la strategia. E trovare i "personaggi", giusti, indiscutibili, corretti - e servili alle idee comode e correnti, permesse dai padroni del gioco. E infatti eccoli, li riconoscete facilmente. Non dicono nulla di scandaloso, nulla di quanto non sia previsto dai padroni, vidimato dalle major dello show. Sono "affini" allo spettacolo. Lo si nota anche in una tendenza a rendere tutta l'arte "performativa". Tutto questo è ben diverso, ovviamente, dall'uso strumentale che sempre gli intellettuali e i poeti, se tali sono, di attrezzature (ieri la tv, oggi i social) usati e progettati dalla società dello spettacolo. Tra Ungaretti che legge l'Odissea o Benigni che commenta Dante e la giovane poetessa scarsina "usata" da Biden o il simpatico Jovanotti che legge sul palco di Sanremo una modesta poesia corifea delle ideologie dominanti (e poi fa l'antologia da spiaggia - come il concerto da spiaggia) o la compagna del famoso cantante para-rock che si denomina poetessa come marchio distintivo c'è una differenza. Non vederla, o peggio accusare di snobismo chi la segnala, ecco questo fa parte del problema. E della violenza del potere, che infatti finisce sempre per giustificare ognuna di queste operazioni con la legge del "numero".  Ma il numero è legge della replica, non esperienza dell'autentico. La riduzione delle persone a un'unica categoria, quella del pubblico, la sola consentita insieme all'altra con cui essa può convivere tranquillamente, quella dei consumatori, rappresenta il culmine di tale violenza.
Non si tratta di difendere la poesia, ma il sacro. Questo rende la battaglia più estrema. E non fa prigionieri.

A questo primo fattore primario va aggiunto la comprensibile reazione agli errori madornali (a mio avviso voluti) nella trasmissione educativa del gusto da parte di insegnanti e istituzioni educative. A questi temi ho dedicato un libro (Contro la letteratura, ora Bompiani dopo che il Saggiatore lo ritirò dal mercato "spaventati" dal tema). Un libro che ha creato e continua a creare parecchio dibattito. Piegate e forgiate a metodi volutamente punitivi della esperienza estetica/estatica (la riduzione delle arti a "storia delle arti", la furia analitica parascientifica, la noia trasmessa da funzionari statali malpagati che dovrebbero insegnare l'incanto) le arti e la poesia sono diventate nell'esperienza dei più "cose scolastiche" invece che elementi vitali. La maggioranza dei giovani si è dunque rotta le scatole dell'arte e della letteratura per come l'ha incontrata a scuola. E dunque sembra loro di "respirare" quando si vede qualcuno che parla di tali cose belle senza fracassarti le palle. Tale reazione genera, in assenza di una seria educazione del gusto, il crearsi di "pubblico" laddove la strategia della società dello spettacolo propone elementi di coagulo. E dunque si troveranno un sacco di citazioni sui social della povera buona cara Merini e molte meno di Attilio Bertolucci o Vittorio Sereni o di Eliot. Ma chi conosce la poesia sa distinguere tra il tavernello e il barbera di un'arte.

È una vera operazione a tenaglia, a mio avviso voluta. Entrambe le schiere, quella dello spettacolo e quella degli scolastici e accademici, hanno il medesimo obiettivo se pur apparentemente perseguito con metodi opposti. La sparizione della zona sacra nella poesia. La zona dove si trova lo scandalo vero. La zona libera da ogni potere. La zona dell'indisponibile se non alzi le mani. La zona fuori da ogni mercato e seduzione. La zona dell'abisso che invoca l'abisso.

Il terzo fattore, più comico e pittoresco, ma non privo di veleno e orrore, è la vanità. Dalle "poetesse" che si fotografano in posa da modelle per avere più follower ai "poeti" che ritengono di essere alfieri della poesia perché la scrivono sui muri, dagli editori che garantiscono agli autori "visibilità" (tipo mutande su uno scaffale), fino allo sfogo pubblico di paturnie e pensierini in "versi" di tizi che si autoscrivono nei profili "poet" o "artist", dopo aver pubblicato un librino. O nemmeno. Tale vanità, spesso travestita da sussiego parasacerdotale, è una se non la prima alleata di tale riduzione della poesia a elemento della società dello spettacolo. Ovviamente, i nuovi modi di comunicazione e di "autopromozione" incentivano e seducono. E se nell'arte visiva e in quella musicale, arriva a un certo punto la tagliola e la droga dei soldi (investimenti, guadagni, stipendi) a orientare e selezionare, non di rado a opera di operatori della comunicazione e della moda, nel circo della poesia questo non è possibile. Non solo perché con pochi euro ti compri la Divina Commedia, ma perché la poesia non ha mercato, in quanto non è legata a un supporto necessario. Puoi farne esperienza in tanti modi: voce sola, libro, pagina elettronica, disco, spotify, foglietto strappato da un notes, note del telefono etc. etc... E se da un lato lo studio e la coltivazione della poesia, ovviamente, richiedono strumentazione adeguati, la sua circolazione no. E questo facilita la confusione e la vanità.

Ma allora cosa può offrire alla società dello spettacolo la poesia? Appunto la (presunta) aura, la sacralità, quella per cui certi cantanti già da tempo venivano - per promuoverli pateticamente di grado - chiamati poeti pur essendo modesti autori e pieni di manierismo o scopiazzature nei testi. A questa montagna di vanità senza remore, a questa nebbia di piccineria, a questo egotismo malato e sollecitato eccitato sistematizzato dalla società dello spettacolo, che ne fa ottimo combustibile per se stessa, non ci si oppone con vacui moralismi o scettica sconsolazione. Ma con dura consapevolezza, con sacrificio della propria vanità, con la rottura e disseminazione della propria forza. Con un’allegria da amanti.

"È andata”, dice il mio amico. E lo capisco, è uno di quelli che davvero ha dedicato la vita alla cultura, alla poesia, con intelligenza, studio e anche una certa generosità, senza sconti.

Poi sono sicuro che però si china e prende la mira.

Perché la forza della poesia autentica è nel fatto di essere un amore impossibile.

 

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