di Antonio Raffaele
Davide Toffoli, L'infinito ronzio, Edizioni Controluna 2018
Quante volte, magari immersi nei nostri dispositivi tascabili e pieni di rassicuranti certezze indotte, ci illudiamo di carpire, di intuire o di avere a portata di mano un qualche segreto infinitamente grande? E distratti non ci accorgiamo che nel frattempo stiamo invece calpestando qualcosa di prezioso, di raro e di infinitamente piccolo? E, per sottofondo, un infinito ronzio esce dalle braci di energie, ancora una volta inconsapevolmente vive e si disperdono là dove noi stessi ci perdiamo.
Questo libro è un viaggio nella e della poesia che ci accompagna attraverso versi privi di urla e altresì sostenuti da una delicatezza profonda e rara, difficile da trovare sulla superficie dove si è soliti sostare a lungo.
E il viaggio è la linea rossa, ora sottile ora più spessa, che unisce le sue varie sezioni passando da intimi riflessi ad ampie condivisioni.
Toffoli si affida e confida nell'eterno cercarsi, perdersi e ritrovarsi sotto le inevitabili nuvole che si incontrano lungo il cammino, invitando a scrutare le impronte lasciate da chi ci ha preceduto verso ogni nostra Santiago. Lascia parlare le piazze, i vicoli, il patrono o la donna con le scarpe da torera e gli occhi di Gulpiyuri che sorprendono "l'oceano in un prato". Meravigliose visioni poetiche.
Una porta semichiusa, sperando che non si chiuda del tutto allo sguardo rivolto alle persiane, nel centro di una città come L'Aquila ormai vuoto di persone. O a Norcia dove si desidera allontanare il ricordo troppo doloroso dei lutti e tornare alla normalità originaria. Ma il poeta vola anche sopra il suo Vagliagli nel silenzio della notte e accarezza Nemi quasi volendoci esortare alla consapevolezza di essere ancora vivi.
Ognuno di noi, se e quando legge, affronta i propri fantasmi, osserva se ci è sfuggito qualcosa e resta in una continua ricerca volta alla conoscenza di se stesso. Allora in intimi ritratti inversi, quasi per talea, il poeta innesta nei suoi testi i versi di poeti noti e meno noti, giovani e giovanissimi affinché da uno dei loro rami possano nascere frutti nuovi, dolci, oppure amari come la paura che la cenere di una sigaretta possa confondersi con quella di Dachau. Certo ci si può chiedere cosa potrebbe pensare Giorgio Caproni nell'essere citato in un libro che già nel titolo contiene la leopardiana parola infinito. Ma Toffoli lo sa e allora a Genova in una straziata allegria beve solo il ricordo del vino nel suo bicchiere vuoto perché tutti se ne sono andati senza lasciare traccia.
E il bicchiere non basta a contrastare l'universo e, infatti, Toffoli in valigia porta sempre con sé un sasso che spesso suona e risuona sordo la sua presenza tra i versi. Nel continuo muoversi del poeta quasi etereo tra luoghi, persone ed emozioni lascia che il sasso sia l'unico oggetto che lo possa riportare o ancorare alla terra. Terra dove giace fragile la casa dello studente che tanto ha toccato la sensibilità di Biancamaria Frabotta. Ma anche quella dove i "buoni assassini" hanno deposto il nome di Luca Varani. O il sud, terra di Rocco Scotellaro dove cotti come la crosta del pane c'è ancora chi approda schiavo alla raccolta per pochi spiccioli.
Anche la stessa Calandrone nella trasmissione "poesia in technicolor" su Rai Radio 3 riconosce in Toffoli l'idea che si debba trovare una condivisione con le poesie degli altri, perché le poesie sono continuamente in dialogo con le poesie e, come dice la poetessa, il mondo con il suo ronzio è per Toffoli un luogo ancora abitabile pur nel suo attrito e nel suo sembrarci a volte indifferente e quasi non scalfibile.
"Poesie attese sul sasso.
Da una croce abbracciamo fantasmi...
In disparte, spediamo
spasmi, uno stadio del respiro
segnali di voce, su Marte".
E il viaggio continua oltre e forse anche attraverso lo specchio degli haiku, giocando in modo soffice con i contrasti tra la luce e gli elementi come nel trittico nemorense oppure con i miti e gli eroi sepolti in terra sarda.
Ma come ogni placido fiume che si rispetti il suo percorso non può che approdare al mare, magari in settembre, o planare con l'ausilio delle doppie "esse" di sasso sui campi che si "assolvono" dopo un'estate "assediata" dal sole. Toffoli respira il mare e il suo profumo intenso di salsedine fino a sfiorarne il fango plasmato di sangue e di cielo. Quello stesso fango, origine e limite dell'uomo, impastato con il sole che nei primi versi del libro, quando era ancora torrente, ci sfuggiva nel nostro muoverci "frenetici e scostanti".