Nota di Eleonora Mazzoni
La casa degli sguardi inizia con un’immagine che è una sorta di struggente “pietà” scomposta: un ragazzo di venticinque anni steso nel letto, i pantaloni pieni di piscio, un livido sulla fronte, il petto coperto dalle bruciature di sigaretta e, fuori, la madre che si è addormentata sui tre gradini che portano alla stanza del figlio.
Eppure Daniele non è malato, anzi è vivo, molto vivo, “vivo oltre misura”, ma talmente immerso nel magma oscuro e vertiginoso del suo vivere da corteggiare di continuo il nulla. Estraneo ai falsi rituali e ai sogni preconfezionati con cui la società del benessere illude e seda, giovane poeta stimato (ma “la poesia non cura, semmai apre, dissutura, scoperchia”), Daniele per anestetizzarsi sceglie la droga più a buon mercato e per giunta legale. Ed è così che una sfilza di bicchieri di vino bianco scandisce ogni sua giornata in una dolorosa e solitaria via crucis.
Siamo a fine degli anni Novanta. “Oggi voglio stare spento” cantava ancora Vasco Rossi…
L’alcol è per Daniele “un’onda di morbidezza, fa sparire gli spigoli che mi feriscono”. E continua ad esserlo anche quando tiene lo stordimento sotto controllo, con sua madre che mette la bottiglia di vino al centro della tavola per evitare che il figlio si sballi fuori di casa, oppure quando le bevute sono relegate ai soli fine settimana, nel momento in cui Daniele trova lavoro come operaio al Bambino Gesù.
Sì, proprio al Bambino Gesù di Roma, il regno della somma sofferenza, in cui pare impossibile rintracciare anche solo una parvenza di senso, il luogo delle “lacrime irriscattate” come diceva Dostojevski. “Non è un posto per te, vede’ i bambini malati, sei sicuro?”, gli chiede subito sua madre. Invece è proprio questo il posto per lui e da qui, immergendosi nella merda letterale e metaforica, nel sangue e nelle ferite di un ospedale pediatrico, Daniele comincia la sua lenta risalita. Da qui. Guardando in faccia la realtà, attraversando il male. Non quello glamour delle serie tv da gustare seduti in poltrona, no, quello reale, orrendo, privo di fascino e crudele, che però è inutile continuare a tenere a distanza o tentare di “disinfettare”, perché - lo scriveva molto bene Rilke - “ciò che infine ci custodisce è il nostro essere senza protezioni”.
Daniele Mencarelli esordisce con un bellissimo romanzo, maleducato e mai consolatorio, mettendosi in scena senza schermi, ma stando alla larga da una narcisistica auto fiction: il protagonista infatti perde a poco a poco i connotati autobiografici per assumere quelli universali di qualsiasi essere umano, nudo, scorticato e fragile di fronte agli interrogativi primari della vita e allo smarrimento che da sempre ci procura lo stare al mondo.
Nota di Dora Albanese
Quella di Daniele Mencarelli è una scrittura in punto di morte: racconta senza cerimonie al lettore, come in un testamento, l’ultimo respiro del corpo basso del mondo che ha conosciuto.
Nel romanzo, La casa degli sguardi edito da Mondadori, la voce del poeta diventa una marcia dello spavento, e la narrazione, la trama, si aprono a un intenso urlo in cerca di luce.
Mencarelli ha le mani gonfie di mondo che si dichiara e che non ha paura e nemmeno pudore, perché come scrive lui “se si chiede aiuto, lo si deve fare per bene, il pudore non me lo posso permettere”.
Il personaggio del romanzo porta lo stesso nome dello scrittore, Daniele.
È la storia di un giovane poeta oppresso da un affanno sconosciuto “una malattia invisibile all’altezza del cuore, o del cervello” una diagnosi esatta, irreversibile, ustionante. È la storia del mesto dolore del mondo – e quando il dolore sa esser “umano” di qualunque cosa si tratti, finisce sempre per renderci più aggraziati.
“Ormai agli uomini non è più permesso interrogarsi, abbracciare fino in fondo l'insensatezza su cui abbiamo costruito certezze assurde”.
Daniele invece lo fa, si interroga e decide di girare la lama, spostarla dal cuore all’orizzonte per vedere come il mondo, così aperto ai suoi occhi possa essere più tagliente di un coltello e fargli anche bene.
Di una forza commovente è anche la figura materna, che non molla mai la presa sulla disperazione del figlio.
L’orizzonte di Daniele è l’amicizia con un poeta affermato, Davide, che lo aiuterà ad uscire dal cono d’ombra fatto di alcool di depressione ed euforica colpa, facendogli ottenere un lavoro come operaio per una ditta di pulizie nell’ospedale Bambino Gesù a Roma.
Così lo spavento che fino ad allora aveva dato la spinta agli affanni della vita del protagonista - lo spavento di non avere più tempo per abituarsi a niente, perché un passo corrodeva l’altro - si trasforma in un lavoro di dedizione e di faticosa salvezza.
In ospedale imparerà a guardarsi dentro e poi attorno, e poi ovunque potrà il suo sguardo arrivare a concimare d’amore l’infanzia: scoprirà la fratellanza dei colleghi, le voci meravigliose dei bambini malati, i loro giochi, i loro sguardi, le loro canzoni, la dolce disperazione dei genitori. La speranza. La fede. La paternità di uomini resi piccoli da notti gigantesche passate a sperare in un miracolo. “Io non sapevo che i bambini morissero, sì, muoiono ma non così, come quello scandalo di bellezza e infanzia sfinita ai miei piedi… La bambina è nella cassa bianca perché è morta”.
Alla fine del romanzo Mencarelli ci dona una poesia inedita scritta per un bambino “… continua a farmi casa nel tuo sguardo, usami per restare vivo nel ricordo”.
La casa degli sguardi è letteratura pura.
Mencarelli non scrive per vincere, scrive per rimanere.
Photo credit: librimondadori.it