di Pietro Cagni
Daniele Giustolisi, Se scendevi per strada, Capire Edizioni, 2019
A un’altra velocità, doppia: per sostenere una vita che non basta a sé stessa, la «vita vuole ancora vita», bisogna bruciare il proprio tempo, stancare le braccia e la testa finché fanno male, scrivere poesie come benzina sul fuoco. Daniele ha fame, nel suo poema degli occhi c’è una progressiva, minima forse, rastremazione delle parole, per tentare di sfiorare l’ineffabile, fino a diventare familiari con l’ineffabile, con gli angeli che visitano le biblioteche, i visi allucinati delle rockstar, o gli alberghi di lusso sulla riva del Tamigi. Con le parole di Céline/Capovilla, imparare da Alcide/Pablo (o da un’altra sua incarnazione, nel libro, quella del «quasiniente» Nasmù) che «sembra nessuno, ma parla con gli angeli e dà loro del tu». Almeno provarci, ma questo “tu” è difficile da guadagnare. A ogni pagina della sua raccolta (che è la prima, è il suo vero esordio) Daniele si toglie dalle spalle il morso secco della fame, della paura di una vita piccola, per metterselo davanti agli occhi e farci i conti, seguendone i contorni. E più spesso di quanto avrei voluto leggere fissa le coordinate del tema, perde parole a controllare di aver detto tutto, di non aver lasciato vuoti gli spazi per diradare la paura. Ma in poesia è una grazia e riaccade, ed è sempre la presenza che vivifica un libro di poesie, lo accende da dentro come luce della torcia da bambini che trapassa la mano e le unghie: accadono versi insieme nitidi e rarefatti, precisi e tanto aperti. Una grazia di sei sillabe: «e il suo entrarmi in cuore», dove la condensazione che al pronome atono è dovuta stringe in sinalefe, porta al congiungimento delle vocali. E avviene anche la parola impronunciabile e irricevibile, “cuore”, quante volte ripetuta in tutta la raccolta ma sempre cavata dal petto, un cuore «fiato di spina / che taglia il buio». E poi una delle tante dediche: «a giuliano, / alla nostra corsa / su un viale di torino […] essere noi il confine incandescente / l’appoggio di ogni cosa». Sulla pagina Daniele misura la consistenza, l’ubi consistam, il fondamento della corsa, e se inciampa forse nel troppo dire [ad esempio un verso come «in ciò che fa di una piazza sabauda»] ritrova subito la grazia di un «tuo abbraccio temporalesco». E poi, nel corso della raccolta, una delle tantissime invocazioni: «che sia più vita allora / più vita vera che mi porti alla sua via». O ancora, nell’ultima sezione: «è rimasto un cordoglio di cenere qui per ogni nome». Ecco, versi come questi: la parafrasi impossibile, il corto-circuito di forma senso significato, congegni che possono trattenere l’impossibile accaduto, quello di una mancanza presente:
sai tenere il ritmo dell’attesa
la rendi al cuore come un mistero in grembo
Il residuo di metrica, quando lo si può discernere, funziona. «ora dammi, ti prego, una curva più larga del tuo amore» è il movimento, la dilatazione dei tessuti, un endecasillabo che fa spazio al settenario. Si spostano gli organi, lasciano posto come fanno a volte i corpi, niente affatto solo delle madri: «in un abbraccio d’amore che non sa trattenere» anche qui l’eccedenza, proprio in corrispondenza del verbo della chiusura, che tutto potrebbe raffrenare, anche qui l’unità metrica è come se straripasse, si rompe per restituire un abbraccio che non chiude in un abbraccio, un abbraccio compiuto e che pure supera i confini delle braccia (Rodin, Chagall, o i vuoti neri di Bacon). Perché bisogna almeno provare a contenere la «troppa luce», una realtà che scassa gli argini, che non si può trattenere: «le vetrate della lidl, vedi, sembrano stasera mostrare / una bologna di mille città che corrono dietro la cassiera». E continua così. «dietro la cassiera» la poesia impara la composizione delle visioni e delle parole: «dietro al suo guardare le albicocche / come alla vita di un figlio». Non è casuale che queste parole appartengano alla poesia che dà il titolo al libro. Daniele chiede che gli orizzonti non si chiudano, che le canzoni non finiscano. «un’incarnazione oggi comincia» «che posso fare nasmù / se non bucare il foglio con il tuo nome». Un’ansia interrogativa percorre questa discesa nell’underground (letteralmente, toccare il suolo su cui tutto poggia, chiede di scendere nella veste notturna delle città, sui mezzi, tra i palazzi): questo chiedere è tutto leopardiano. E poi le bufere, l’amore e la morte (certo, anche le minuscole e alcune parole, certi accostamenti) allargano il respiro del libro, lo immettono in un solco, in dialogo con chi ha già messo gli occhi nella «smagliatura chiara / come i primi chiarori dell’alba». Che la piaga rossa languente sia all’alba o nel cuore della sera è lo stesso. Si scrive per poter scrivere «come ama dio». Per niente meno di questo.
la cassa della batteria da 24 o 26
sono le misure di via palermo o forse
di tutta l’america che ascoltavamo
che se spingi il piede ti scava in faccia
a ogni colpo
pensavamo a come fare
alla steve albini si diceva
trovare suoni grossi, le stanze come chiese
per le nostre canzoni
castelmola come los angeles per un’estate
tra i vuoti dei muri che riverberano pure l’anima
prendi i verdena, ad esempio
o i melvins, quell’immaginario lì
graffiato, trasandato e inaccessibile
come una meraviglia
era il nostro modo di stare,
chiuderci e immaginare
come sarebbe stato da quel momento là fuori
fare e disfare il giorno
eccederne la misura
essere tutto senza essere niente,
la storia nostra o di qualcun altro
essere ciò che conta
essere solo un inizio
a giuliano, alla nostra corsa su un viale di torino
è che volevamo sfondare le reti del tempo
sentirlo l’asfalto sulla pelle
essere noi il confine incandescente
l’appoggio di ogni cosa
noi in un maggio
in ciò che fa di una piazza sabauda
sempre il sogno di un altro sogno
e portavamo a casa il parlare della nostra terra
fradici cuori nudi
soli di noi
in una mansarda vicino portanuova
e prima che le lucciole andassero a dormire sul serio,
il tuo abbraccio temporalesco
sintesi tremenda
di età selvagge, brucianti
il non essere il solo ad aver dimenticato un grappolo
su un albero siciliano
che raccoglie nella fede
e tutto di noi ama
ma io che posso fare nasmù
se non bucare il foglio col tuo nome
e cantare ciò che sei
pezzo di vita
a 45 grammi la sera
sciolta dietro i forni
come medusa al sole
essere un quasiniente,
nell’invisibilità di una cucina d’osteria in via mascarella
da dove un’incarnazione oggi comincia
ma io che posso fare nasmù
se non seguire la scia del tuo sudore
acqua di sale
invisibile a tutti
ma non al canto
che restituisce nomi
anche al tuo sparire tra i pani
là dall’ultimo margine del mondo
di questo vapore come incenso
stasera scrivilo daniele, scrivi dell’arrivo a bologna
dell’ultimo magio d’oriente
disperso, scassato da una notte straniera
tradito da una cometa impazzita
che ha perso di vista tra i gin un piccolo dio
che da qualche parte, puoi sentirlo
urla ancora il ritrovo
sarà l’alba di un giorno
o forse l’alba di un sogno
e tu bellezza piena
umana
residuo di donna
gonfia
devastata
guardi dai colli un nuovo spettacolo di vita
che accade sulla città
ti alzi rotta
smartphone in mano
la tua ultima impresa nel mondo
ultimo spettacolo, la meraviglia
fotografare la bellezza che ti sta davanti
bellezza che passa, asfalta
bellezza che esige infinito
il sopravanzare delle cose
più di te oggi
di noi
esserne la parte, riconoscerla, cantarla
vedi, per questo tu sei il dramma della poesia
tu fotografi e piangi, sei la forma di un verso
il non voler lasciare questo spettacolo di mondo
per nessuna ragione
nessun dio
paradiso
o gloria eterna
l’eterno è qui, nella paletta numero 2 in cui pisci
aggrapparsi a lei, ad ogni dettaglio per non andare mai via davvero
dove sarà tutto questo per te stasera?
tu dove sarai?
tu che sarai?
guardami, ti sono dietro
io come te voglio durare
perché siamo per la morte sì
ma non per il nulla
noi, amica mia, siamo fatti per restare
tu se scendevi per strada
era senz’altro per dilatare la vita
che ti sbatteva in faccia,
non per curvarti
e perderti i volti accanto che ci passano, bellissimi
ma la tua mano non trascorre
e linate che si chiude su sopracciglia persiane
è l’ultima immagine che mi resta di te
nell’uguaglianza delle cose
che confonde
le vetrate della lidl vedi, sembrano stasera mostrare
una bologna di mille città che scorrono dietro la cassiera
dietro al suo guardare le albicocche
come alla vita di un figlio
sta come una superstite tra i superstiti,
bisognerebbe avere cura di lei
raccoglierli questi lampi di meraviglia
del niente, in questo vagare da orfani ma di cosa?
bisognerebbe innamorarsi e innamorarsi ancora
come ama dio
chi lo dice,
a casa di una madre
tra le balaustre
o per le strade
io quell’amore lo immagino al piombo
spaziale tra stelle straniere
di intraducibili movenze
io non so come ama dio
ma c’è in te, sorriso di sfinge
l’immagine e la somiglianza
che costringi alla tua piccolezza di uomo
tu tienimi le dita se sfilano
abbraccia ogni ossa
insegnami a durare
fatti voce che tiri al ventre il suo volto