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Daniel D. Marin: la quotidianità poetica tra ironia e profondità

“I testi di Daniel, molto assennati all’apparenza – se non addirittura puerili – sono, letteralmente, Poesie con gli occhiali che descrivono nei particolari, attraverso una sequenza quasi ipnotica, avventure nate da esperienze diottrico-oftalmologiche sul reale”. Questa osservazione, presente nella prefazione di Ștefania Mincu, non solo introduce con intelligenza l’opera di Daniel D. Marin, ma offre anche una chiave di lettura per apprezzarne la profondità nascosta dietro l’ironia. È proprio questa capacità di trasformare la quotidianità in un mosaico poetico, intriso di osservazioni sottili e spiazzanti, che rende la raccolta Poesie con gli occhiali una sorprendente esplorazione delle minime occasioni della vita.

Il suo sguardo è quello di chi sa cogliere l’essenziale che abita il quotidiano, non necessariamente bello, ma indubbiamente possibile e quindi vero: Sono in piedi nel bus e mi tengo per bene alla sbarra./ Una pancia si sfrega contro la mia schiena./ Che sia la pancia di una donna o quella/ di un uomo, il mio gusto estetico/ si sente ferito. (p. 53)

Questo poeta ha una lingua tutta sua, non importa se traduca in italiano la sua lingua romena, se a volte incontriamo poesia e altre volte bizzarri racconti in sequenza; ciò che è interessante è il suo cifrario, i suoi simboli, il suo surrealismo tanto comico quanto drammatico:

Una mattina, la madama civetta si svegliò sotto il letto.
Spalancò un’ala grigia e afferrò gli occhiali, che erano
sulla scrivania. Con gesti precisi li inforcò, sistemandoseli
comodamente sul becco. Vedeva solamente contorni vaghi.
Sopra di lei, il letto pareva una gabbia. […] (p. 21)

La scorrevolezza dei suoi scritti non è mai scontata. Il suo è un linguaggio composto, ma senza forzature, che intreccia l’ironia e il cinismo dell’uomo contemporaneo, creando una dimensione poetica che va oltre i confini nazionali, ricordo che l’autore stesso è nato in Romania ma vive in Italia da molti anni.

Daniel è capace di dare vita a situazioni che potrebbero sembrare comuni, ma che nel suo racconto acquistano una forza e un’intensità rare, figlie di un’attenzione che invece l’uomo medio contemporaneo non coltiva poi molto.  A titolo di esempio, in riferimento alla capacità di registrare spaccati di vita, leggiamo il testo “Una signora perbene” (p. 13), l’autore ancora una volta offre una meditazione sulla verità e il suo contrario; attraverso la figura di una donna che, cercando di appartenere a un certo tipo di società, si ritrova a nascondere la sua vera natura dietro l’apparenza.

Una signora perbene

Una signora di facili costumi molto conosciuta
e chiacchierata nel suo quartiere brama
diventare una signora perbene.
Quando attende l’autobus alla fermata, sta impalata
nell’abito grigio di un’eleganza discreta e legge
un grosso libro con una concentrazione perfetta
simulata tramite gli occhiali dalle lenti trasparenti.
La gente la guarda intrigata e ammicca.
Un signore perbene del quartiere vicino la guarda
con ammirazione. Le si avvicina piano, si china
e le chiede gentilmente che libro sta leggendo.
La signora di facili costumi intuisce di essere
sulla buona strada per diventare una signora perbene,
si aggiusta gli occhiali sul naso, come una professoressa
di tutto rispetto, e risponde allo stesso modo gentile:
un romanzo storico sulla regina d’Inghilterra.
Il signore le sorride ancora più gentile e le chiede
se per caso non si identifica almeno un po’ con il
personaggio principale. La donna respira sollevata:
sente di essere vicino, vicinissimo
ad essere una signora perbene per il semplice fatto
che si identifica quasi completamente con il personaggio
principale. Si toglie gli occhiali dalle lenti trasparenti
e tutto intorno diventa buio. Non vede assolutamente
più nulla. Si rimette gli occhiali e vede tutto ciò
che la circonda. Respira profondamente:
adesso sì che è davvero una signora perbene.

La scena è intrisa di ironia: la signora si illude di essere diventata una “signora perbene” solo per il fatto di aver indossato un abito e letto un libro. La rivelazione finale, in cui la donna non vede più nulla senza i suoi occhiali, è un colpo di genio che restituisce l’idea di un’identità costruita su fondamenta fragili e superficiali. Quest’ultima considerazione mi pare più che mai accostabile alle biografie preconfezionate che popolano i profili Instagram contemporanei.
In conclusione, l’opera di Marin mi pare proprio un ritratto dell’uomo e della sua vulnerabilità. Con una lingua agile, che sa essere tanto sarcastica quanto dolce, riesce a tradurre un’umanità che, pur nella sua diversità, è la stessa in ogni angolo del mondo.
Il suo incedere, pur rimanendo saldamente ancorato alla cronaca del quotidiano, riesce a far emergere l’inquietudine e la ricerca di senso che accompagna l’esistenza. L’autore sa restituire una visione lucida e ironica dell’uomo, e lo fa con una lingua che non tradisce mai la sua essenza poetica; probabilmente il frutto di una buona chimica tra leggerezza e profondità, e punge sì, senza far male.

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