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“Dal libro di Micol” di Daniele Cavicchia

di Fabio Barone

Daniele Cavicchia, Dal libro di Micol, Passigli Editori 2008

Io sono una guerriera.
Le cose che si possono cambiare le cambio;
quelle che non si possono cambiare le accetto.

Micol

Nel dolore io leggo il segno di una dignità integrale, costitutiva della persona. Dentro quella faglia emotiva che si apre, e che scardina ogni certezza alla quale consciamente e non il nostro spirito e il nostro corpo si erano abbarbicati, esiste un nucleo di angoscia che continuamente si chiede “perché?”, e ancora, “dove?”. Domande ragionevoli, avrebbe detto Pascal, perché la ragione non è che un pensiero in accordo con le passioni – e sia! –, ma come lo si può esprimere, cosa si può sperare, cosa si ha bisogno di scrivere quando il dolore incontra la morte di un figlio? Micol aveva solo 17 anni e Daniele Cavicchia questo libro non avrebbe mai voluto (né dovuto) scriverlo, eppure sin dal primo verso se ne intuisce la tensione impossibile, l’angoscia e la forza paradossale e lacerante della domanda:

Dove trovare le parole giuste
per ricomporre la sua immagine,
quelle che scrivendo di lei
non periranno nella pagina?

Hai il terrore che possa svanire
e ogni volta temi sia l’ultima porta
dalla quale puoi entrare
e oltre la quale lei possa sorprenderti

Il tempo ha scritto la sua storia
e noi siamo visitati da parole ostinate
che tentano di mettere ordine
tra quei ricordi senza nome

Dicono che c’è tempo in quel tempo
quaggiù timore per una data,
la preghiera appena recitata
sfoglia un giorno, reclama una vita

Cavicchia chiede di lei, chiede di vederla un’ultima volta, reclama solo uno sguardo anche perché: «Nulla cancella la tua orma / nemmeno l’occhio crudele / che non sapeva di essere tale. / Il raggio che hai lasciato / illumina le stanze, chiede con pazienza / che il dolore non venga seminato». Io non ho conosciuto Micol, ma sono d’accordo con Fabrizio Dall’Aglio quando nella nota di fine libro dice che sì, di aver conosciuto Micol, “perché ogni vita è anche la nostra – dice lui – […] anche quando quell’altra pare non esserci più”. E questo è tanto vero per ognuno quanto più per un poeta, il quale sente addosso il destino di tutti, tensione espressa molto bene da una quartina di Rilke contenuta nei suoi Sonetti quando scrisse: «Solo chi coi morti / mangiò il papavero, il loro, / non perderà in avvenire / il più segreto dei toni», e ancora nella terzina finale: «Solo nel duplice regno / le voci si fanno / miti ed eterne». E quella eternità Cavicchia l’ha fissata sulle pagine di questo libro, ben espressa da una parola che prima di illudersi ha compiuto il suo giro nella coscienza, nel suo inferno e nella sua ricerca per approdare a: «Capire che sei presenza e non distanza / e cercarti in quel giorno in cui mi sono perso: / come potevi sapere che la vita fosse breve / se l’infinito ti circondava?».

[…]
Un giorno forse ci rincontreremo
in un luogo non annunciato, magari un giorno vuoto
che non teme di riempire se stesso.
Intanto è proprio vero
che impossibile è fuggire dalla paura e dall’amore.

Il dolore pare incancellabile, lo fu anche per Ungaretti quando morì il suo figlioletto, eppure quando la disperazione sembrava prendere il sopravvento una forza sconosciuta lo visitò facendogli dire “Poi nella cassa ti verranno a chiudere / Per sempre. No, per sempre / Sei animo della mia anima, e la liberi. / Ora meglio la liberi / Che non sapesse il tuo sorriso vivo”. Così Cavicchia nella tenerissima e straziante poesia La carezza, con la quale ha re-impresso per sempre la memoria di Micol nella sua anima:

La mano sulla scrivania
nella prima luce del mattino
i colori, le foto, la memoria delle cose
nei segni che fermano il discorso.

Alla parete la luce dei tuoi occhi
il sorriso che accoglie
la mano nel riverbero a benedire
il petalo, la grazia, la grazia…

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