di Gianfranco Lauretano
Cristiano Governa, La strategia della clarissa, Romanzo Bompiani, 2019
Se pensiamo a un romanzo giallo, l’idea che ci si forma in testa è quella di narrativa d’evasione. Una galleria lunghissima di detective, commissari, indagatori del mistero del crimine se ne sta ormai appoggiata sugli scaffali delle librerie e sulle librerie dei nostri salotti e, di solito, le loro imprese durano lo spazio delle cento-duecento pagine d’ordinanza dei loro libri. Qualche volta, però, alcuni di loro sfuggono al luogo comune e si accampano in maniera più duratura nella memoria dei lettori, che li seguono per generazioni, e di quella palude - davvero liquida, per usare un termine di moda - che è il canone letterario. È il caso di Sherlock Holmes, di Padre Brown o Jules Maigret che devono la loro permanenza forse proprio allo scarto rispetto al luogo comune giallistico, alla capacità dei loro autori di raccontare investigatori sui generis, strani, unici.
Credo si possa dire lo stesso per Carlo Vento, il commissario bolognese protagonista del romanzo “La strategia della Clarissa” di Cristiano Governa, recentemente pubblicato da Bompiani. Anzi, la lotta al cliché degli “investigatori da serie tivù che risolvono le indagini riflettendo sotto la doccia e hanno bellissime ex pronte a consolarli” fa parte della poetica stessa del commissario Carlo Vento, che odia inoltre la riviera romagnola e, al posto di un’avvenente ex-moglie a consolarlo (sessualmente) è seguito passo passo dalla sorella clarissa, monaca di clausura, che all’opposto della Monaca di Monza, anziché aspettare l’amante in convento, se ne scappa fuggendo dalla lavanderia per seguire il fratello commissario. Inquieta e sboccata, ma capace di una formidabile lucidità di sguardo sulla realtà, la natura umana e Dio stesso, sarà determinante non solo nelle indagini ma anche nella continua offerta di pensieri ed emozioni che riguardano la storia sua, del fratello e di tutti i personaggi coinvolti nella vicenda, che è noir e comica, misteriosa e profonda tanto da toccare corde dell’anima a cui raramente i romanzi gialli si spingono.
Cristiano Governa è un rovesciatore di luoghi comuni. È come se la letteratura gli servisse a mettere alla prova la pacata consuetudine dei nostri pensieri sempre più banali, su tutto: l’amore e la morte, le età della vita, la giovinezza e la maturità, la famiglia e le vacanze, Bologna, Cervia e Riccione, la verità e l’apparenza. Nel romanzo non è l’assassino il pericolo più grave e nemmeno quasi quasi il colpevole. La trama è avvincente perché è sempre sulla soglia di rovesciare qualcosa che si era accomodato, come assodato nei nostri pensieri, in questo senso un buonissimo mistero investigativo, non c’è che dire. Il motivo per cui ci riesce sta nel fatto che il romanzo è scritto molto bene, e la cosa va spiegata. Un’opera è buona letteratura quando chi la scrive impara dalle parole che sta scrivendo e Governa dà proprio questa impressione. Ogni tanto piazza lì, come una pistolettata (in un romanzo giallo senza sparatorie) una frase che riassume un passo fatto, un assunto. Quella che ricapitola lo svolgimento e la posizione della clarissa, riportata anche in copertina, è “tu la verità la insegui, io l’aspetto”. Ma ce n’è a bizzeffe, tanto che il consiglio è quello di leggere il romanzo con una matita pronta a sottolineare. E non è male, per un romanzo giallo, essere letto con la disposizione a prendere appunti…