Una riflessione e due poesie di Gilda Policastro
Sto costruendo il mio nuovo libro di poesia. Ho dei testi, un progetto, una direzione, un chiodo fisso. Non ho ancora il titolo, perché quello verrà alla fine, come sempre. Per i romanzi ho subito avuto un titolo, o almeno a metà libro. Per i libri di poesia no: forse perché, come ha detto Milo De Angelis, parti scrivendo un verso e non sai dove arriverai, dove ti porterà, cominci a saperlo scrivendo. Quando ho pubblicato i miei primi testi, nel 2006, sulla rivista cult «l’immaginazione (a tutt’oggi tra le poche riviste cartacee a ospitare esordi, inediti e poeti non mainstream), Romano Luperini scrisse nella nota introduttiva che li avevo concepiti «circumnavigando il pozzo delle nevrosi». Vennero poi le Stagioni, poesie sulla morte di mia madre, scritte nel 2007: Giulio Mozzi, al RicercaBo in cui le presentai per la prima volta, disse che le avrebbe preferite più esplicite, libere da mediazioni o schermi. Più avanti avrei cominciato a frequentare i poeti dell’area di ricerca, condividendone alcune istanze teoriche (il testo come luogo e momento della scrittura – più che della “poesia” –, al di là delle pretese realiste o empatiche, le scritture destinate a una condivisione privilegiata nella rete, per la difficoltà anche storica di trovare sedi fisiche appropriate). Soprattutto, ho acquisito nuove pratiche: l’eavesdropping, ad esempio, che è l’ascolto casuale delle voci degli altri, riportate sulla pagina in sequenze più o meno elaborate (come già prima di me, anche se in forme diverse, Marco Giovenale e Alessandro Broggi). Nell’ultimo libro, Esercizi di vita pratica (Prufrock spa 2017), c’è una sezione in cui questi lacerti di conversazioni ascoltate per caso s’imprimono sul bianco della pagina senza aggiunte a commento. Graficamente somigliano, si parva licet, agli Epigrammi di Pagliarani, che sempre Luperini definì «sventagliate di sentenze sul contemporaneo», nella prefazione alla prima uscita, per Manni nell’87. Manni, che è poi anche editore della rivista «l’immaginazione»: tutto sembra tenersi, come in un cerchio in cui torno costantemente al punto di partenza. Se l’ospedale del mio primo romanzo, Il farmaco (Fandango 2010), e del mio primo libro di poesia, Non come vita (Aragno 2013), era un luogo in cui la perdita autobiografica si convertiva nella messa in forma di un pensiero condiviso (coi foucaultiani, soprattutto), quello della malattia come condizione particolare ma non eccezionale per la materia di cui siamo fatti, nelle scritture che ho letto e praticato gli ultimi anni il raffreddamento è diventata misura sempre più necessaria ed esibita nella costruzione di un discorso comune, a scongiurare la chiusura narcisistica nel soggettivismo (che pure, ove fosse e riuscisse poetica, darebbe Amelia Rosselli, non Alda Merini). Di recente ascoltando una conferenza di Gabriele Frasca sulla poesia contemporanea ho avuto chiara una differenza fondamentale: ci sono poeti che scrivono di qualcosa, ossessivamente, e poeti che scrivono qualcosa, cioè parole, combinandole (o scombinandole) magistralmente. Non ne faccio una questione qualitativa: da una parte c’è De Angelis e il suo Tema dell’addio, dall’altra c’è Balestrini con Caosmogonia. Se l’esperienza anche estrema (ovvero degli estremi: vita e morte), direbbe ancora Frasca, è troppo comune per farne poetica, e dunque non è nella condivisione biografica l’essenza della poesia, c’è una verità della scrittura che muove da un’istanza profonda e indefinibile: il flusso, lo chiamano alcuni poeti, ed è quel momento in cui si decide di scrivere e si procede, di nuovo con Milo, nell’avventura della parola. O dell’emozione intellettuale, con Balestrini. Mi metto tra quelli che credono alla poesia come tecnica, procedimento, dispositivo, ma non tra quelli che nulla concedono all’aspetto emotivo. E a questo punto ho anche smesso di domandarmi come collocarmi all’interno della zona di rinnovati conflitti della poesia contemporanea (lirica vs ricerca, detto in breve). La madre morta. Un tema che ti espone al patetico, quant’altri mai. E cosa ne hanno fatto (diversissimi tra loro) Sanguineti, Caproni, Barthes? Più di recente, hanno scritto di padri (e di morte di padri) Magrelli, Mari, Falco, Mazzoni (poeti e prosatori, variamente). In un’antologia recente intitolata Matrilineare (La Vita Felice 2018) è ricomparso un mio testo dalle Stagioni, intitolato Precari. Oggi lo scriverei diverso (quello che presento qui è un autoediting della versione uscita in Non come vita), o non lo scriverei affatto. Oggi nei miei testi non c’è più traccia di quella morte distante una madre. Ci sono le morti, tante, in elenchi presi da google, da facebook, da racconti orecchiati nella pratica di ascolto non più casuale, ma deliberata: esco di casa con la schermata Note del cellulare sempre all’erta. Le morti degli altri non come cari altri, ma altri accidentali, che non conosci, che ti muoiono velocissimi sotto gli occhi mentre scrolli repubblica.it o capiti in prima serata su Chi l’ha visto. Nasce così il testo (e a seguire la serie di testi) sui modi di morire, nella fredda modalità elencatoria, uscito nelle Inattuali (Transeuropa 2016), che un agente di sicurezza, a una rassegna di poesia, mi chiese di leggere ai suoi corsi di formazione. Poesia utile. Fa ridere (awful), è ansiogena. Insieme al libro di poesia sto scrivendo un saggio sui poeti, sulle generazioni e le poetiche, gli incontri e gli scambi, i maestri e i compagni, le genealogie e i conflitti. Tutto questo ribollire di influenze e di slanci, di teoria e di pratica poetica, di incontri e di occasioni (la scuola Molly Bloom, che mi ha messo in contatto con interlocutori non specialisti, ma di sicuro appassionati dal primo all’ultimo di ogni singolo corso – tranne forse la ragazza del primo banco fuggita dopo la lezione su “poesia e impegno”, che spero torni, prima o dopo), tutto questo ribollire, dicevo, trova ogni volta una forma diversa perché certe cose le puoi dire solo in prosa, altre in verticale, altre ancora le dici meglio coi captcha (così, sempre per raffreddamento emotivo, la parola «padre» in un mio testo degli Esercizi, con un espediente molto piaciuto a un altro poeta per me fondamentale, Valerio Magrelli). Esiste la formula della poesia perfetta, giusta? È più poesia una sestina o una sequenza casualmente assemblata? Poesia (o scrittura) onesta, su tutto: onesto usare le parole che meglio aderiscono al concetto, al tempo e allo spazio (fisico, intimo, solipsistico, collettivo, psicologico, psicotico). So che sto scrivendo un libro in cui ogni parola la peso. Più volte. Caso mai ne lascio qualcuna da parte, irrisolta, provvisoria, sfocata: ad esempio le parole del titolo che non ho ancora trovato.
Precari (2011)
Mamma tu lo sai
che a un idiota qualunque
se va a leggere su un palco
(li chiamano slam poetry)
gli danno quanto meno cento euro
(lo chiamano gettone di presenza)
e se lo vince ci può campare un mese
certo senza pretese
Mamma mi ricordo quando non camminavi
papà a spingerti giù nel corridoio
overlook dice un poeta di oggi, come in shining,
e tu battevi i piedi, invece,
come un bambino al mare
Mamma tu lo sai che oggi
se va bene mi rinnovano il contratto
ma devo sorridere, carina e ben vestita
(da ricercatrice a tempo, che hai capito, da velina)
Mamma ti ricordi com’eri bella nelle foto
in cui ci somigliamo
(meno disoccupata tu,
meno gettone di presenza
una supplenza e già tre figli,
mamma mia com’eri bella),
e lo leggevi Céline? – l’atroce
farsa del durare –
ma lo sai che adesso
puoi lavorare gratis, se ti dice male,
e un fidanzato a tempo lo rimedi:
precario oggi è come postmoderno ieri,
come il nero,
si mette dappertutto che non stona
Mamma tu nelle foto eri bella,
bella e felice,
ma ora che ci guardano le telecamere,
ti prendi, magari, un’ombrellata e se ne muori
almeno sai chi è stato
Mamma gli altri miei amici hanno le mamme
che sorridono, a volte, e tutte vive
(le tue medicine impilate
più il potassio per ripristinare i liquidi),
e adesso, sì, ti porterei dove volevi andare,
in quel posto molto chic a s. Lorenzo
dove paghi dieci euro e mangi una, due prese,
alla terza ti guardano male (lo chiamano happy hour),
e ti farei leggere quello che scrivo
quando dicevi
la dobbiamo far vedere, non è normale,
o ti potrei presentare i fidanzati,
pure quel curdo di cui diresti non sia mai
Mamma ti vengo a prendere, alzati,
dai aria alla stanza e, soprattutto,
fatti trovare
Così poi forse divento brava (inedito, 2019)
Legatemi la testa, non voglio morire
(nessun suicida vorrebbe mai)
Alternativa tra giù e le fiamme
rincorsa e oplà
imparare a stare al mondo (vorrei)
come si passa dalla pianta al vortice
dal cumulo alla sintassi
Verticalizza il dolore nella serie (elenco di farmaci,
a seguire)
ammorbidisci
(rilascia, incapsula, guarisci)
oppure dilacerato, a stacchi (incisioni soprapelle, che si vedano,
che ti facciano, poi, quelle domande,
collaterali, effetti: tutti)
offrilo ai vicini, compassione: condiviso come nei giorni buoni
scomponi i filamenti
(molecole, principi attivi, rifinitura)
La scorciatoia è ribellarti all’escussione
con l’attivismo della tana
ordina in piccole azioni lente precise
il tratto quotidiano dalla testa all’arto, uno:
il cinismo non guarisce nessuno
(dormi con un cane e ti sveglierai?)
Guardatemi, scompaio
Poesie bellissime
Questa sarebbe poesia? È sconcertante, è un mero buttar fuori impressioni nemmeno troppo fonde.