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Come un gesto creaturale, l’offerta di Maddalena Bertolini

Corpus Homini, Puntoacapo 2016

Fin dal titolo della raccolta, con l’uso del dativo, Maddalena Bertolini sembra voler sottolineare la dimensione embrionale di quell’alterità con cui la poetessa non solo tesse un dialogo, ma nella quale si immerge per risalire nuova, maternale. I versi, modulandosi nell’eco vertiginoso dei monti e delle rocce, per lei rifugio e destino, chiedono, pur senza alcuna obbligata imposizione, di essere pronunciati facendo sì che le parole si facciano respiro e melodia. Una danza leggera che si intreccia nel grembo dell’umano, nel viscerale nascere di un pianto tra le mani.

I pronomi possessivi che determinano le due sezioni, Il mio e Il tuo, smentiscono qualsiasi desiderio di dominio o di confinamento di quello sconvolgimento che è piuttosto «una domanda di riempimento», ma poggiandosi sulla pagina come una preghiera, divengono la richiesta ripetuta di un ascolto, di un contatto ( Tu sei lo specialista dell’abbraccio, quando stringi/ forte il mare batte e sento affannarsi il vento). Decisa e chiara è l’invocazione, più volte pronunciata, dello schianto, di quell’’inondazione marina che riporta nelle vene il primo canto: vieni a rapirmi il cuore; fammi sentire/quel cuore che colpisce senza sparare; fammi /saltare il cuore/ nel petto con un innesco tuo, pietoso/ perfetto; fammi disordinare; fammi soffrire.

Il corpo, presente già nel titolo, è un corpo consapevole di essere tempo e tempio, luogo accarezzato da un sussurro che, pur inteso nella sua umanità e carnalità (metti la mia /presenza nella tua affondami di radici/non capisci che sono qui per te/ solo per te riemergo dalla notte; abbraccia il mio corpo di creta riempi/ la mia credenza senza fame la nostra/coscienza senza pane) riscopre la sua origine soltanto nella traccia odorosa di quello che è il Corpus domini.

È forse l’incerto tremore invernale (l’inverno è un posto inevitabile: ci serve/freddo e avere paura di morire sotto un/manto di neve, possibilmente per amore)  a insegnare alla Bertolini il faticoso e masticato dolore che si cela nell’arte del donare, di farsi pane: non sei mio/figlio. Sono stata/ la tua porta/ una fune che ha slegato il passeggero. Un dono che attraversando i sentieri della maternità, condizione vicina al quotidiano dell’autrice, lega e svela la non casuale presenza del termine «benevolenza» nel primo e nell’ultimo testo della raccolta, poiché, come già ricordava Seneca, ogni donare, ogni bene-facere, deve essere supportato da un bene-velle. È nel donarsi che la presenza esatta della mancanza può farsi riempimento, riportando ogni esistenza umana, pur quella di madre, alla condizione filiale, nella quale l’autrice auspica possa socchiudersi il suo ultimo sguardo.

Carola D’andrea

testo scelto

Tu dormi con la neve che ha ancora

voglia di cadere; mi reggo alle spalle

del tuo sonno galleggiano le stelle sono

isole di luce. In questo modo

desidero morire infilarmi nella fessura

tra le palpebre del sogno di chi amo

lasciare cadere la mia pelle raffreddare lentamente

e vedere condensare la mia anima

nell’eco del tuo eco come una conchiglia

in mano al mare. Figlia.

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